venerdì 25 maggio 2007

Civiltà, barbarie e storia mondiale: rileggendo Lenin

1. Attualità e inattualità di Lenin

Diamo uno sguardo a quello che avviene in Medio Oriente, affidandoci, per questa ricognizione, alla stampa più autorevole, soprattutto americana: nell’Irak devastato dalle sanzioni più ancora che dalla guerra, «bambini giacciono in ospedale su letti sporchi, sussurrando la loro pena mentre muoiono di diarrea o di polmonite»[1]. Secondo le «cifre agghiaccianti» fornite da Catherine Bertini, direttrice esecutiva del Pam, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, «nell’Irak del lungo embargo la malnutrizione colpisce il 23% della popolazione. Il tasso di mortalità infantile nel frattempo è raddoppiato: adesso si aggira attorno al 70 per mille»; è in gioco, ormai, la «sopravvivenza di oltre un milione fra vecchi, donne, bambini»[2]. «Tremende» sono le sofferenze» imposte dall’embargo, ma «le tribolazioni del popolo irakeno non riescono a catturare la compassione internazionale»[3]. Meno che mai quella della stampa americana che tuona: «Se le Nazioni Unite non vorranno imporre una zona vietata ai carri armati [irakeni], l’America dovrebbe imporla unilateralmente». La brutalità può ora rivelarsi alla luce del sole, senza la foglia di fico dell’ONU: le risoluzioni di questo organismo, brandite come un’arma in occasione della «Tempesta del deserto», ora vengono apertamente proclamate irrilevanti. L’amministrazione USA è chiamata a «rendere esplicita la politica sinora condotta in modo coperto. Nessun attimo di respiro sino a quando Saddam non sia andato via [...] Non importa quel che Saddam è disposto a fare: finché egli governa, gli Stati Uniti porranno il veto ad ogni tentativo di alleviare le sanzioni»[4]. Un intero popolo viene così tenuto in ostaggio, ma che importa? Esso era stato già messo in guardia da Bush, che aveva a suo tempo inviato «un messaggio inequivocabile a Baghdad: sbarazzatevi di Saddam, oppure scordatevi di poter estrarre petrolio». Per convinzione o per paura, gli irakeni si rifiutano di sfidare l’attuale regime? Tengano bene a mente allora la possibilità di nuovi bombardamenti ordinati da Washington. In un modo o nell’altro bisogna essere pronti a morire: «Talvolta, l’unica conversione possibile è nel battesimo del fuoco»[5]. In conclusione, il leader «democratico» dell’impero americano si riserva il diritto di vita e di morte sui sudditi di una provincia riottosa. Non è possibile procedere diversamente perché qui sono in gioco vitali «interessi nazionali USA»[6], tanto più vitali ora che il regime fantoccio di Riad si sente minacciato da una fronda e da un’opposizione politica sempre più capillarmente dffuse. Un rientro dell’Irak sul mercato petrolifero mondiale ridurrebbe la quota detenuta dall’Arabia Saudita, facendo crollare i suoi introiti: ne risulterebbe una cospicua decurtazione delle esportazioni americane (dopo aver contribuito con 55 miliardi di dollari allo «sforzo della guerra del Golfo», la monarchia saudita riserva quasi un terzo della spesa pubblica alla «difesa» e cioè all’acquisto di armi a Washington[7]); ne deriverebbe, soprattutto, un ulteriore dilagare del malcontento popolare nel paese mediorientale. Ecco perché, «all’Arabia Saudita un rientro prematuro del petrolio irakeno sul mercato mondiale appare come una minaccia non solo alle sue finanze ma alla sua stessa sicurezza nazionale»[8]. E allora si può ben condannare il popolo irakeno all’inedia se questo è il prezzo da pagare per mantenere a Riad una dispotica «monarchia corrotta» e colpevole di «astronomici sperperi» ma che ha comunque il merito di sbarrare il passo «a uomini ostili all’Occidente»[9].
Altri osservatori mettono in evidenza, facendo riferimento ad analisi e impressioni circolanti sia negli USA che nel mondo arabo, che la posta in gioco della guerra del Golfo e del persistente embargo è ancora più alta:
«Sul piano agricolo, l’Irak possiede in questo settore un’esperienza non trascurabile. Cosa assai poco gradita agli Stati Uniti, poiché l’Irak con la sua produzione agricola non è soggetto ai condizionamenti della lobby del grano americana. E’ stata questa una delle ragioni della massiccia distruzione del paese, come gli stessi americani riconoscono. James Ridgeway, riferendsosi all’agricoltura e al potere dell’Irak, scrive: “Dal punto di vista degli Stati Uniti, la distruzione dell’ambiente e dell’agricoltura in Irak dovrebbe, a breve termine, aprire dei mercati ai prodotti agro-alimentari americani. Il che dovrebbe produrre di conseguenza una crescente dipendenza politica dagli Stati Uniti [...] come è già accaduto in Etiopia e in Egitto” [...] Un tipo di analisi che dimostra ampiamente come gli esperti delle Nazioni Unite, o meglio degli Stati Uniti, non fossero andati nell’edificio del ministero dell’Agricoltura irakeno per cercare l’uranio o altro, ma con altri scopi che riguardavano soprattutto la produzione agricola [...] Una serie di elementi quindi che hanno ampiamente contribuito a creare il tipo di rappresentazione che gli arabi hanno dell’Irak. La pesante distruzione ad opera degli americani e alleati va esclusivamente intesa come apartheid tecnologico, in altre parole un tentativo di impedire agli arabi l’accesso ad una tecnologia avanzata autonoma. Per questo motivo l’Irak è divenuto il simbolo delle capacità arabe. Come osserva Halim Brakat “la logica egemonica americana ha distrutto l’Irak affinché retroceda in una posizione di sottosviluppo”».
Non a caso, ad essere colpito, è stato un paese che può o poteva vantare il tasso di analfabetismo di gran lunga più basso del mondo arabo e può o poteva disporre di un’autonoma ricerca scientifica finanziata, per «oltre il 90%» dallo Stato («negli altri paesi arabi, invece, la ricerca è finanziata da istituzioni straniere, tutte americane»)[10]. E, dunque, non si tratta solo di sbarazzarsi con ogni mezzo di un uomo politico sgradito (anche se concretamente e massicciamente appoggiato al tempo della guerra irakena contro l’Iran): sì, consolidare il controllo USA su una zona strategicamente ed economicamente decisiva è essenziale; ma si tratta anche di decapitare una volta per sempre sul piano economico, tecnologico e della ricerca scientifica un paese che, ben prima dell’invasione del Kuwait, aveva dato segni di un’intollerabile volontà di autonomia rispetto all’Occidente e, soprattutto, rispetto all’Impero americano.
Oppure, spostiamo l’attenzione ad un altro paese medio-orientale. I giornali informano, in modo quanto mai scarno e poco appariscente, del fatto che un deputato laburista inglese si propone di proiettare alla camera dei Comuni il film del regista USA Allan Francovich che «scagiona la Libia di Gheddafi e accusa la Siria per l’attentato dell’88 che costò la vita a 270 persone»[11]. E tuttavia le sanzioni continuano a colpire in modo implacabile un paese e una popolazioni innocenti, ma comunque messi al bando dalla cosiddetta «comunità internazionale». D’altro canto, già un paio di anni fa è stato autorevolmente chiarito che gli «obiettivi politici degli Stati Uniti» nulla hanno «a che fare con la strage di Lockerbie», ma mirano in primo luogo a «controllare la produzione del greggio mediorientale»[12]. Le grandi potenze capitaliste, e soprattutto l’angelo sterminatore di Washington, decidono in modo sovrano e inappellabile, chi è terrorista. Oggi è il turno della Libia, domani potrebbe essere quello della Siria. Ad ogni buon conto, come rivela la rivista ufficiale dell’U.S. Army War College, gli Stati Uniti già si preprano per la «Seconda guerra del Golfo», questa volta, presumibilmente, contro l’Iran[13].
Ma proprio mentre fatti macroscopici confermano in pieno la validità dell’analisi leniniana dell’imperialismo, tale sistema di relazioni internazionali celebra i suoi massimi trionfi anche sul piano ideologico, circonfuso com’è di un’aura che consacra il suo carattere benefico per il presente, il passato e il futuro. «Finalmente torna il co­lo­­nialismo, era ora», ha trionfalmente annunciato, qualche tempo fa, il «New York Times», dando la parola allo storico Paul Johnson. E Popper: «Abbiamo liberato questi Stati [le ex-colonie] troppo in fretta e troppo semplicisticamente»; è come «abbandonare a se stesso un asilo infan­tile». Viene così ripreso un tema classico della tradizione coloniale: come ai tempi di Kipling, i popoli del Terzo Mondo continuano ad essere considerati metà bambini e metà diavoli; e, nella misura in cui si rivelano ribelli e diavoli, è giusto che vengano severamente puniti da parte di coloro che sono i soli propriamente capaci di intendere e volere, da parte degli adulti titolari della patria potestas, i paesi e le classi dirigenti del civile mondo capitalistico. Questa è l’opinione espressa ancora ai giorni nostri, a chiare lettere e con linguaggio squillante, dal teorico della società aperta e profeta del «razionalismo critico» il quale, però, ritiene superfluo interrogarsi sulle ragioni per cui la rinnovata sollecitudine delle grandi potenze per i fanciulli degli «asili infantili» si concentri sulle ragioni più ricche di petrolio e strategicamente decisive. Nel rivendicare nuove guerre del Golfo e nuove spedizioni punitive contro i barbari estranei alla comunità del «mondo civile», ovvero contro i bambini refrattari all’azione educativa dell’Occidente, Popper procede anche lui ad una esplicita riabilitazione del colonialismo, univocamente sussunto sotto la categoria di progresso[14]. Del tutto rimossi sono gli orrori di un capitolo di storia che oggi le grandi potenze e soprattutto l’unica superpotenza superstite si rifiutano, con rinnovata arroganza, di chiudere. Sepolta dall’oblio è una denuncia come quella di Hannah Arendt la quale, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, sottolinea come il colonialismo belga abbia «ridotto la popolazione indigena (del Congo) dai 20-40 milioni del 1890 agli 8 milioni del 1911»[15]. E ancora più greve è la coltre dell’oblio che seppellisce l’analisi più generale dell’imperialismo sviluppata da Hobson. Agli inizi del nostro secolo, questo liberale inglese di sinistra, letto con grande attenzione e rispetto da Lenin, osserva che l’espansione coloniale ha «comunemente comportato» «lo sterminio delle razze inferiori», in particolare di «quelle “razze inferiori” che non possono essere sfruttate con profitto dai colonizzatori bianchi superiori», e cioè non riescono a resistere ai rapporti di lavoro servile o semiservile ad esse imposti[16]. Per aver accennato al ruolo svolto anche dal capitale ebraico nell’ambito di tale capitolo di storia, l’autore di tale analisi viene bollato come «antisemita» da Paul Johnson[17], e la liquidazione di Hobson è al tempo stesso la liquidazione anche di Lenin che nel libro del liberale inglese di sinistra vede «un’ottima e circonstanziata esposizione delle fondamentali caratteristiche economiche e politiche dell’imperialismo»[18]. Dunque -conclude trionfalmente lo storico già citato- «affonda le sue radici nella teoria antisemita del complotto» quella «teoria leninista dell’imperialismo» che ha agito in modo nefasto negli «atteggiamenti assunti da numerosi Stati del Terzo Mondo nei confronti dell’imperialismo e del colonialismo, allorché essi conseguirono l’indipendenza negli anni ‘50 e ‘60»[19]. E’ spesso avvenuto che siano state bollate come antisemite le critiche avanzate al sionismo o alla politica di Israele; ma ora espressione di antisemitismo diviene qualsiasi movimento anti-imperialista e di emancipazione che si sviluppi nel Terzo Mondo: non è un colpo da maestro quello portato a termine da Paul Johnson? Non a caso, il «New York Times» gli ha concesso l’onore del fausto annuncio che finalmente il colonialismo sta facendo ritorno, e in modo trionfale!
Ripugnante è l’ipocrisia di un mondo culturale e politico che, mentre esibisce la sua indignazione per il revisionismo storico impegnato a relativizzare l’orrore del genocidio nazista, procede tranquillamente alla riabilitazione e trasfigurazione del colonialismo a cui Hitler esplicitamente si richiama nel corso della sua campagna di sterminio degli «indigeni» dell’Europa orientale[20]. Spericolate appaiono le contorsioni dell’anticomunismo che, al momento dello scoppio della rivoluzione d’Ottobre, la bolla (in Europa e in America) come risultato di un infame complotto ebraico-bolscevico[21], e che ora, invece, pretende di inserire, direttamente o indirettamente, lo stesso Lenin nella storia dell’antisemitismo. Più che mai evidente si rivela l’inconsistenza di certi intellettuali alla moda che inneggiano al colonialismo ma al tempo stesso denunciano come affetta da antisemitismo la categoria di imperialismo, per poi condannare l’atteggiamento eccessivamente critico assunto «da numerosi Stati del Terzo Mondo nei confronti dell’imperialismo e del colonialismo»! Resta il fatto che l’ideologia dominante è riuscita a rendere del tutto «inattuale», anche negli ambienti di sinistra, la figura e il pensiero del grande rivoluzionario russo.

2. Democrazia e imperialismo

In Lenin la critica del colonialismo e dell’imperialismo gioca un ruolo centrale, ben al di là dell’immediatezza politica. Cos’è la democrazia? Vediamo in che modo la definiscono i classici della tradizione liberale. Tocqueville descrive con lucidità e senza indulgenze il trattamento disumano riservato a pellerossa e neri negli USA: attraverso deportazioni successive, e subendo i «mali terribili» che queste comportano, i primi sono ormai chiaramente destinati ad essere cancellati dalla faccia della terra; quanto ai secondi, sono sottoposti nel Sud ad una schiavitù più inflessibile che nell’antichità classica o nell’America Latina. Nel Nord sono in teoria liberi, ma, in realtà continuano ad essere vittima di un «pregiudizio razziale» che proprio qui infierisce in modo particolarmente crudele, sicché il nero risulta privo non solo dei diritti politici, ma anche di quelli civili, dato che la società lo consegna di fatto inerme alla violenza razzista: «Oppresso, può lamentarsi, ma trova soltanto bianchi tra i suoi giudici»[22]. Ciò non impedisce, tuttavia, a Tocqueville di celebrare l'America come l'unico paese al mondo in cui vige la democrazia, «viva, attiva trionfante»[23]. Un paese e un regime politico vien definito democratico indipendentemente dalla sorte degli esclusi, per ampio che possa essere il loro numero e crudele la loro sorte.
Facciamo un salto di tre decenni e rivolgiamoci ad un autore che da Bobbio è stato assunto a padre fondatore del «socialismo liberale»[24]. In John Stuart Mill possiamo leggere che
«il dispotismo è una forma legittima di governo quando di ha a che fare con barbari, purché il fine sia il loro progresso e i mezzi vengano giustificati dal loro reale conseguimento. La libertà, come principio, non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali. Fino ad allora, non vi è nulla per loro, salvo l'obbedienza assoluta ad un Aqbar o a un Carlomagno se sono così fortunati da trovarlo».
Tanto più significativa è questa dichiarazione per il fatto che essa campeggia in un’opera tematicamente dedicata alla celebrazione della libertà (On liberty). Ma è chiaro: per il liberale inglese, la libertà «vale solo per essere umani nella pienezza delle loro facoltà», non certo per una «razza» che può o deve essere considerata «minorenne»[25] che talvolta è appena al di sopra delle specie animali superiori[26]. E di nuovo la democrazia e la libertà vengono definite indipendentemente dalla sorte degli esclusi; e con perfetta buona coscienza Tocqueville e Mill possono abbandonarsi alla celebrazione lirica al tempo stesso della guerra dell’oppio e dell’Occidente come campione della libertà[27].
Rispetto a questo mondo, Lenin rappresenta una rottura non solo sul piano politico ma anche su quello epistemologico: la democrazia non può essere definita indipendentemente dagli esclusi; il «dispotismo» esercitato sui «barbari» costretti all’«obbedienza assoluta» propria degli schiavi e le infamie dell’espansione e del dominio coloniale gettano una luce inquietante sugli Stati liberali, e non solo per quanta riguarda la loro politica internazionale. Questa non è un elemento estraneo all’interna struttura politico-sociale. Illuminante è l’esempio degli Stati Uniti: qui, è sullo stesso territorio nazionale che risedono le razze «minorenni», dalla cui condizione però non si può prescindere neppure allorché si tratta di analizzare paesi come l’Inghilterra o la Francia o l’Italia. Nella tradizione liberale la teorizazione o celebrazione della libertà procede di pari passo con l'enunciazione di clausole d'esclusione, sicché la libertà finisce con configurarsi in ultima analisi come privilegio.
Critico implacabile di tale logica è il rivoluzionario russo, il quale sottolinea l’incompatibilità tra democrazia e imperialismo. Quest’ultimo rappresenta la completa negazione della democrazia al livello dei rapporti internazionali: le «cosiddette nazioni civili d'Europa» opprimono «le nazioni meno civili e più desiderose di democrazia dell'Asia»[28] cui disconoscono il diritto all’autodeterminazione e al self-government, negando nella pratica quei principi che pure non si stancano di sbandierare come proprio titolo di gloria e di legittimità imperiale. In tale quadro, bisogna collocare la denuncia cui procede Lenin della vena razzistica più o meno esplicita che attraversa in profondità la storia del colonialismo e dell’imperialismo: essi si fondano sullo sfruttamento e «asservimento di centinaia di milioni di lavoratori dell'Asia, delle colonie in generale e dei piccoli paesi» ad opera di «poche nazioni elette»[29]; i dirigenti della borghesia liberale cercano in ogni modo di ostacolare «l’emancipazione economica e quindi anche politica delle pelli rosse e nere»; d’altro canto, gli immigrati «provenienti da paesi più arretrati» sono vittime di discriminazione salariale sui luoghi di lavoro dei paesi capitalisti[30]. Questa carica razzistica esplode con particolare chiarezza e virulenza in occasione di guerre condotte contro popoli che, dal punto di vista delle potenze coloniali e imperiali, «non meritano nemmeno l'appellativo di popoli (sono forse popoli gli asiatici e gli africani?)»[31].
Ho qui fatto riferimento all’analisi dell’imperialismo. Ma è tutta l’opera di Lenin a poter essere interpretata in questa chiave di lettura. Il partito rivoluzionario si caratterizza per la «denuncia politica dell’autocrazia sotto tutti i suoi aspetti»[32], e di tale politica fa parte -il rivoluzionario russo non si stanca di sottolinearlo- l’oppressione delle minoranze nazionali (e in particolare degli ebrei), nonché un espansionismo imperialista mirante a sottoporre sempre nuovi popoli al giogo grande-russo e autocratico. Il partito rivoluzionario deve saper promuovere un’indagine e un’agitazione «sulla politica interna ed estera del nostro governo, sull’evoluzione economica della Russia e dell’Europa», deve cogliere ogni occasione «per spiegare a tutti l’importanza storica mondiale della lotta emancipatrice del proletariato»[33]. E di tale lotta di emancipazione è parte costituiva e essenziale anche l’emancipazione degli schiavi delle colonie dalla borghesia liberale razzizzati come i barbari al di fuori della civiltà e quindi destinati a subire l’oppressione dei superuomini bianchi e occidentali. In questo senso il rivoluzionario «tribuno popolare» si contrappone al «segretario di una trade-union»[34] che spesso -osserva il saggio sull’Imperialismo citando Engels- si comporta come il puntello di una classe dominante e l’esponente acritico di «una nazione che sfrutta tutto il mondo»[35]. La critica che già il Che fare? rivolge a Bernstein è sì di riformismo, ma anche è soprattutto di subalternità ad una borghesia impegnata in un programma di espansione e oppressione coloniale, e dunque di esclusione dalla democrazia della maggior parte dell’umanità.

3. Capitalismo, colonialismo ed esportazione della civiltà

Il grande rivoluzionario russo prende radicalmente sul serio la tesi cara a Marx e a Engels, secondo cui un popolo che ne opprime un altro non può essere libero[36]. In un certo senso la prende ancora più sul serio degli autori che per primi l’hanno formulata, ma non l’hanno fatta valere o fatta pienamente valere né per i popoli europei «privi di storia» o ormai travolti dallo sviluppo storico mondiale[37], né per i popoli coloniali. Quando Marx definisce gli USA come il «paese dell'emancipazione politica compiuta», ovvero come «l'esempio più perfetto di Stato moderno», il quale assicura il dominio della borghesia senza escludere a priori alcuna classe sociale dal godimento dei diritti politici[38], è chiaro che procede a tale definizione senza tener conto della schiavitù dei neri o della sorte dei pellerossa; non sembra rendersi conto del fatto che la dicriminazione censitaria passa in quel paese attraverso la discriminazione razziale. In tal senso, Marx si distingue poco da Tocqueville. E agli ambienti liberali del tempo fa pure pensare l’alto riconoscimento del Manifesto del partito comunista per la borghesia della metropoli capitalistica che «trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche quelle più barbare»[39] e che, tramite le sue conquiste coloniali, assolve il compito, anzi la «missione» (mission) della creazione del mercato mondiale[40]. Oltre che di missione si parla di «destino»: «L’India non poteva sfuggire al destino (fate) d’essere conquistata»[41]; e, d’altro canto, «può l’umanità compiere il suo destino (destiny) senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali dell’Asia?» E’ l’Inghilterra conquistatrice a portare avanti in India «la più grandiosa e, a dire il vero, l'unica rivoluzione sociale che l'Asia abbia mai conosciuto»[42].
Gli articoli da ultimo citati vengono pubblicati su un giornale americano, in un paese dove ormai imperversa il tema del Manifest Destiny, ovvero della missione provvidenziale che porta gli USA, nel 1845, a strappare al Messico enormi territori e che ulteriormente li spinge a porre sotto controllo e civilizzare l’intero continente. Agli avvenimenti in questione fa riferimento in termini lirici Engels il quale celebra il fatto che, grazie anche al «valore dei volontari americani», «la splendida California è stata strappata agli indolenti messicani, i quali non sapevano cosa farsene»; mettendo a profitto le nuove gigantesche conquiste, «gli energici Yankees» danno nuovo impulso alla produzione e alla circolazione della ricchezza, al «commercio mondiale», alla diffusione della «civiltà» (Zivilisation). Il ruolo dagli USA svolto nel continente americano Engels sembra volerlo attribuire alla Germania in Europa centrale, mentre il posto il Messico sembra esser preso dalle «nazioncelle» (Natiönchen) slave che «non hanno mai avuto una storia» e che possono raggiungere la «civiltà» solo grazie ad un «giogo straniero»[43].
La visione che qui emerge del rapporto tra metropoli capitalistica e periferia ovvero tra Europa e colonie non è molto diversa da quella propria della tradizione liberale. La «missione» è attribuita non ad un singolo paese, come nelle versioni più sciovinistiche dell’ideologia in questione, ma alla borghesia capitalistica nel suo complesso. L’espansione coloniale vien comunque considerata come un momento essenziale del processo di unificazione del genere umano, della produzione del mercato mondiale e della storia universale, la quale ultima «non è esistita sempre: la storia come storia universale è un risultato»[44]. Forse è possibile sorprendere delle differenze tra Marx e Engels. Quest’ultimo riecheggia i toni manichei della cultura e pubblicistica liberale del tempo allorché celebra l’esportazione della civilità in quanto tale ad opera dei paesi più avanzati; il Manifesto del Partito Comunista precisa invece che quella imposta dall’«Occidente» all’«Oriente» non è la «civiltà» in quanto tale, bensì «la cosiddetta civiltà», cioè i rapporti «borghesi»[45]. Engels mette a tacere piuttosto sbrigativamente le obiezioni di carattere morale o giuridico alla guerra scatenata dagli USA contro il Messico che certo è di aggressione ma che tuttavia rappresenta una «fatto storico universale» di enorme e positiva portata: per quanto riguarda l’Europa centrale, nonostante i metodi usati, un eroe dell’esportazione della civiltà è Carlo Magno[46] additato a modello, come abbiamo visto, anche da Mill.
Marx sembra assumere invece un atteggiamento più perplesso e sofferto. Sottolinea con forza i terribili costi umani che comporta la «rivoluzione sociale» promossa dall’espansionismo delle grandi potenze. Anche a volersi limitare alla penetrazione economica, «gli effetti distruttivi dell’industria inglese, visti in rapporto all’India, un paese grande come tutta l’Europa, si toccano con mano, e sono tremendi»[47]; in Cina «la popolazione in massa precipita nel pauperismo»[48]. C’è poi da considerare la brutalità politica e militare della conquista e della dominazione coloniale: «la tortura forma un istituto organico della politica finanziaria del governo» inglese in India; «lo stupro, il massacro a fil di spada dei bambini, il rogo dei villaggi sono allora sollazzi gratuiti» degli «ufficiali e funzionari inglesi» i quali si arrogano ed esercitano senza risparmio «poteri illimitati di vita e di morte»[49].
Marx si contrappone qui nettamente alla filosofia borghese della storia incline a tacere il carico di negatività e di sofferenze proprio della modernità e a celebrare l’ascesa della borghesia in Europa e nel mondo come la marcia trionfale del progresso. Ad un arretramento pauroso, sembra invece di assistere in Asia: «le sciagure inflitte all'Indostan dalla Gran Bretagna sono di un genere essenzialmente diverso, e mille volte più concentrato, di tutto ciò che il paese dovette soffrire in epoche precedenti». Se non il genocidio, la conquista europea sembra comunque comportare l’etnocidio:
«L’Inghilterra [...] ha abbattuto l’intera impalcatura della società indiana senza che, per ora, nessun sintomo di rigenerazione appaia. Questa perdita del loro mondo antico, non compensata dalla conquista di un mondo nuovo, conferisce un genere particolare di malinconia alle miserie presenti degli indù; e separa l’Indostan governato dagli inglesi da tutte le sue tradizioni millenarie, dal complesso della sua storia passata[50].
Il bilancio storico della modernità e del trionfo del capitalismo e dell’Occidente è il Marx ben più drammatico che nella tradizione liberale: «il capitale nasce grondando sangue e fango, da tutti i pori, dalla testa ai piedi», e questo intruglio di sangue e fango si rivela con particolare e repugnante evidenza nelle colonie. Tra gli «idilliaci processi» che «caratterizzano l'"accumulazione originaria"» e «l’aurora dell’era della produzione capitalistica» rientrano la trasformazione dell’Africa in una «riserva di caccia per i mercanti di pellenera» -osserva Il Capitale con trasparente allusione alla tragica sorte anche dei pellerossa, ovvero all’«annientamento, schiavizzazione e seppellimento degli indigeni nelle miniere»[51]. Ben diverso è il quadro che della conquista dell’America, con particolare riferimento al Nord, fornisce Tocqueville:
«Benché il vasto paese fosse abitato da numerose tribù d’indigeni, si può affermare a ragione che al momento della scoperta esso non era che un deserto. Gli indiani lo occupavano, ma non lo possedevano, poiché solo con l’agricoltura l’uomo si appropria del suolo e i primi abitatori dell’America del Nord vivevano dei prodotti della caccia. I loro implacabili pregiudizi, le loro passioni indomabili, i loro vizi e forse più ancora le loro selvagge virtù li esponevano a una inevitabile distruzione. La rovina di queste popolazioni cominciò il giorno in cui gli Europei approdarono alle loro coste, e, sempre proseguita in séguito, oggi è quasi compiuta».
Un genocidio si è consumato o si sta consumando, ma esso rientra in qualche modo in un disegno divino, in quello che circa un decennio dopo verrà chiamato il Manifest Destiny di cui sono investiti i colonizzatori bianchi;
«Sembra che la Provvidenza, ponendo queste genti fra le ricchezze del Nuovo Mondo, ne abbia dato loro solo un breve usufrutto; in un certo senso essi erano là solo “in attesa”. Quelle coste così adatte al commercio e all’industria, quei fiumi così profondi, quella inesauribile vallata del Mississippi, quell’intero continente, apparivano allora come la culla vuota di una grande nazione»[52].
Così trasfigurante è l’andamento della filosofia borghese della storia che essa non solo rimuove il genocidio, ma riesce a descrivere l’infame guerra dell’oppio in termini di crociata per la causa della libertà e della civiltà. Se John Stuart Mill difende e celebra quella guerra in nome della «libertà [...] dell'acquirente» prima ancora che «del produttore o del venditore»[53], Tocqueville si abbandona ai toni lirici:
«Ecco dunque infine la mobilità dell'Europa alle prese con l'immobilità cinese! E' un grande avvenimento, soprattutto se si pensa che esso non è che il seguito, l'ultima tappa di una moltitudine di avvenimenti della medesima natura che spingono gradualmente la razza europea al di fuori dei suoi confini e sottomettono successivamente al suo impero o alla sua influenza tutte le altre razze [...]; è l'asservimento delle quattro parti del mondo ad opera della quinta. E' bene dunque non essere troppo maldicenti nei confronti del nostro secolo e di noi stessi; gli uomini sono piccoli, ma gli avvenimenti sono grandi»[54].
Per Marx, invece, non solo sono altissimi i costi umani dell’espansione coloniale, ma essi gettano luce sulla vera natura della metropoli capitalistica che di essa è protagonista:
«La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude»[55].
Nelle colonie la violenza del dominio si manifesta senza mediazioni e senza infingimenti:
«I popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l’hanno imposta senza maschera al nuovo mondo» [56].
A questao punto, la stessa delimitazione dei campi della civiltà e della barbarie diviene problematica. La guerra dell’oppio che abbiamo visto suscitare l’approvazione o l’entusiasmo lirico di Mill e Tocqueville diviene oggetto di un’analisi ben diversa in Marx il quale ironizza su questa presunta «guerra civilizzatrice», nel corso della quale si assiste ad un rovesciamento dei ruoli descritti dalla cultura e pubblicistica borghese e occidentale: in Cina, mentre «il semibarbaro teneva fede ai principi della legge morale, il civilizzato gli opponeva il principio dell’Io»[57], cioè della libertà di commercio così eloquentemente difesa dal filosofo inglese.
Sì, l’emergere della storia universale presuppone l’emergere del mercato mondiale, ma il processo di costruzione di quest’ultimo non è affatto la marcia trionfale descritta e celebrata dai teorici liberali: «sono state le colonie a creare il commercio mondiale» (che è «la condizione della grande industria»), ma «è stata la schiavitù a conferire alle colonie il loro valore»[58]. E, tuttavia, nonostante la violenza della denuncia, nonostante tutta l’«amarezza» che «possiamo sentire» per il crollo di una civiltà come quella indiana, l’espansionismo coloniale trova una sua giustificazione:
«Può l’umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali dell’Asia? Se la risposta è negativa, qualunque sia il crimine perpetrato dall’Inghilterra, essa fu, nel provocare una simile rivoluzione, lo strumento inconscio della storia»[59].
In questo senso, Marx non riesce realmente a superare la filosofia della storia propria della borghesia liberale, anche se il progresso e l’esportazione della civiltà cari a quella classe sociale rivelano ora un volto assai più problematico e, a tratti, decisamente orribile:
«Quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese -il mercato del mondo e le forze di produzione moderne- e le avrà assoggettate al controllo comune dei popoli più civili, solo allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orribile idolo pagano, che non voleva bere il nettare se non dai teschi degli uccisi»[60].
Per quanto alti e barbarici siano i costi inflitti alle popolazioni locali dall’espansione dell’Inghilterra, questa, tuttavia, rappresenta oggettivamente la causa del progresso e della rivoluzione. E, dunque, la borghesia capitalistica svolge a livello mondiale una doppia funzione rivoluzionaria: una diretta, consistente nell’esportazione di rapporti sociali capitalistici sia nelle compagne collocate nella metropoli sia nelle colonie; l’altra indiretta, per così dire via negationis, nella misura in cui produce i suoi affossatori. Siamo in presenza cioè di una classe sociale doppiamemente rivoluzionaria nel senso che, da un lato essa è protagonista di una rivoluzione dall’alto e dall’altra finisce col mettere alla luce i protagonisti di una rivoluzione anticapitalistica dal basso che si rivolge contro la borghesia stessa. Nelle colonie, però, la rivoluzione sembrerebbe svilupparsi soprattutto dall’alto e dall’esterno. E’ vero, in riferimento al futuro dell’India vengono formulate due ipotesi diverse: «Gli indiani non raccoglieranno i frutti degli elementi di una società nuova seminati in mezzo a loro dalla borghesia britannica, finché nella stessa Inghilterra le classi dominanti non saranno abbattute dal proletariato industriale, o finché gli stessi indù non saranno abbastanza forti per scrollarsi di dosso il giogo della dominazione coloniale inglese»[61]. Ma Marx chiaramente attribuisce maggior credito alla prima ipotesi, non sembra prendere in seria considerazione l’ipotesi di una rivoluzione nazionale e anticoloniale. Quando scoppia la rivolta dei Sepoys in India, denuncia sì l’ipocrisia dell’indignazione ufficiale che si strappa le vesti per la crudeltà degli insorti senza spendere una parola su quella dei conquistatori e dominatori, ma per il resto sembra assimilare la rivolta ai movimenti vandeani con il carico di fanatismo feroce che essi tradizionalmente comportano[62].
Un elemento di novità sembra intervenire nell’analisi della situazione cinese. Anche in questo caso, da un lato c’è l’evidenziamento degli altissimi costi umani e sociali dell’espansione coloniale, dall’altro il riconoscimento ai cannoni inglesi ed europei del merito di aver infranto «il barbaro isolamento ermetico dal mondo civile», quell’isolamento che «era la premessa necessaria della conservazione della vecchia Cina»[63], «culla millenaria della arcireazione e dell’arciconservatorismo»[64]. Epperò, la crisi devastante provocata nell’«impero più antico e solido del mondo» dalla penetrazione coloniale sembra dover sfociare in «un sovvertimento sociale, i cui risultati avranno comunque, per la civiltà, un’importanza immensa»[65]. «Scatenata dall’Inghilterra la rivoluzione cinese reagirà col tempo sulla stessa Inghilterra e, attraverso questa, sul continente europeo»[66]; in tal caso, le potenze europee «sarebbero pronte a sorreggere la vacillante dinastia Manciù»[67]. Se in India, tralasciando l’ipotesi assai remota e improbabile di una rivoluzione nazionale, la «rivoluzione sociale» provocata dalla penetrazione e dal dominio inglese è l’estensione al suo interno di rapporti politici e sociali più avanzati, in Cina sembra profilarsi un «sovvertimento sociale» sull’onda di una lotta contro il pauperismo di massa e la crisi economica e sociale che costituiscono il risultato dell’espansionismo coloniale europeo. Nel primo caso si tratta di una rivoluzione imposta dall’alto e dall’esterno, nel secondo di una rivoluzione pur sempre dal basso che finisce poi con lo scontrarsi, oltre che con la classe dominante interna, anche con quella europea dalla quale pure è partita il primo impulso al mutamento. E tuttavia la rivoluzione cinese dal basso viene presa in considerazione principalmente nella misura in cui essa mette in moto la rivoluzione inglese ed europea che sola può assumere un carattere socialista e a cui si rivolge in primo luogo l’attenzione di Marx. E’ in una prospettiva analoga che egli guarda all’Irlanda, un territorio economicamente sottosviluppato, una colonia, dove «la questione agraria è finora la forma esclusiva della questione sociale», e dove la «rivoluzione agraria», intrecciandosi strettamente con la «questione nazionale» e con la «lotta nazionale irlandese», può abbattere il dominio dell'«aristocrazia terriera inglese», gettando così le condizioni per l'emancipazione della stessa classe operaia inglese[68]. Epperò, nel caso della Cina e delle colonie extra-europee, non sembra che nell’analisi di Marx intervenga mai realmente la categoria di «questione» e «lotta nazionale». A universalizzare tale categoria provvede, come vedremo, Lenin.

4. Due letture contrapposte di Marx: Lenin e Bernstein

Ma intanto è da notare che in direzione del tutto contrapposta a quella del rivoluzionario russo si muove Bernstein, il quale dedica un capitolo centrale del testo che dà inizio alla polemica sul «revisionismo» per l’appunto alla questione coloniale, criticando l’«apriorismo politico» di cui darebbero prova, anche a tale proposito, la socialdemocrazia o i suoi ambienti più radicali. Prendendo spunto dall’occupazione della baia di Kiautschou da parte della Germania di Guglielmo II, Bernstein dichiara
«legittimo l’assunto della politica imperiale tedesca di assicurarsi in casi di questo genere il diritto di codecisione [assieme e in concorrenza con le grandi potenze rivali, sul destino della Cina], ed esorbitante dai compiti della socialdemocrazia l’opposizione di principio alle misure che ne derivano [...] Quando poi alcuni giornali si sono spinti fino ad affermare che il partito deve condannre in linea di principio e incondizionatamente l’acquisto della baia -allora io non posso essere assolutamente d’accordo»[69].
Si possono o si devono «deprecare e combattere certi metodi di sottomissione dei popoli selvaggi», ma opporsi all’espansione coloniale significa opporsi alla modernità: «Se prima del tempo, i socialisti proponessero di aiutare i selvaggi e i barbari nella loro lotta contro l’incalzante civiltà capitalista, questo sarebbe un riflusso di romanticismo»[70]. E’ un’accusa che ritorna ripetutamente. L’anticolonialismo è espressione in ultima analisi di una Kulturkritik conservatrice o reazionaria: «Sarebbe un assurdo romanticismo concedere al mondo incivile il diritto di sbarrare il passo al commercio del mondo civile»[71]. A tale proposito, Bernstein eredita il peggio della tradizione liberale. Se Mill celebra, come sappiamo, la guerra dell’oppio in nome della libertà di commercio, il dirigente socialdemocratico tedesco, senza lasciarsi impressionare da tale precedente, proclama che «spetta alle civiltà superiori il diritto di portare quelle inferiori a realizzare strutture tali da dare sicurezza alle attività commerciali»[72].
Ma non si tratta solo di spianare la strada al commercio internazionale e all’esportazioni dei paesi più industrializzati: «La civiltà superiore ha sempre, nei confronti di quelle inferiori, il diritto maggiore dalla sua parte, e in certi casi addirittura il diritto storico, anzi il dovere di sottometterle». Possono ben risultare «interessanti» agli occhi degli «etnologi» i «rappresentanti di civiltà inferiori o primitive», ma è ineluttabile, tuttavia, «sul piano storico mondiale, che essi cedano di fronte ai rappresentanti delle civiltà superiori». L’assoggettamento dei popoli coloniali non può essere ostacolato né da considerazioni sentimentali (non è lecito sacrificare «il futuro dell’umanità al suo passato») né giuridiche: i rappresentanti razze forti ovvero della civiltà superiore non possono rendersi «schiavi di una legalità formale». E i massacri e il genocidio che hanno spesso contrassegnato la storia del colonialismo? Bernstein si limita ad affermare che «non è assolutamente necessario che il cedimento di una civiltà di fronte un’altra sia accompagnato dall’eliminazione delle razze e nazionalità meno sviluppate: esse, nei limiti delle loro capacità di sviluppo, possono comunque esistere benissimo»[73]. A teorizzare una superiore legalità sostanziale a partire dalla filosofia della storia colonialistica e dall’idea di missione imperiale e civilizzatrice delle grandi potenze è proprio il dirigente socialdemocratico che poi esprime tutto il suo orrore dinanzi al mancato rispetto delle regole del gioco e alla violenza della rivoluzione d’Ottobre.
Questa scoppia sull’onda della lotta contro la guerra imperialistica (sviluppatasi a partire dalla concorrenza e dalle aspre contraddizioni tra le grandi potenze «civilizzatrici») e della denuncia del ruolo svolto in tale ambito dall’autocrazia zarista che si distingue per una spietata politica di oppressione nazionale anche all’interno dell’Impero. Assieme alla missione civilizzatrice dell’Occidente nel suo complesso, Bernstein legittima anche quella attribuita alla Russia: «Quanto agli Stati Uniti, essi svolgono in America lo stesso ruolo di potenza tutrice e dominante che svolge la Russia in Asia»[74].
Il dirigente socialdemocratico tedesco sembra spingersi sino alle soglie del socialdarwinismo: «Tutte le razze forti, tutti i sistemi economici solidi, tendono ad allargarsi e ad espandersi con la loro civiltà. Questa spinta espansionista è stata in tutti i tempi il più potente fattore di progresso»[75]. «Razze forti» è qui sinonimo di razze civili, mentre sul versante opposto vediamo opporre un’inutile e retrograda resistenza popoli non civili, e persino -si badi bene- «incapaci di civilizzarsi»: allorché «insorgono contro la civiltà», essi devono essere combattuti anche dal movimento operaio[76].
E, tuttavia, nella sua celebrazione dell’espansione coloniale, Bernstein ritiene di potersi richiamare a Marx: «Si può riconoscere soltanto un diritto condizionato dei selvaggi sui territori da essi occupati. La civiltà superiore ha qui, in ultima analisi, anche un diritto superiore. Non la conquista, ma la coltivazione del suolo crea il titolo giuridico storico alla sua utilizzazione». A conferma di tale tesi viene citato il brano del Capitale in cui si afferma che con l’avvento di una superiore formazione sociale diverrà obsoleta l’appropriazione individuale del «pianeta»: né un singolo né una nazione né l’insieme della società di una determinata epoca possono vantare un diritto assoluto sulla terra; i suoi «usufruttuari hanno il dovere, come boni patres familias, di trasmetterla migliorata alle generazioni successive»[77]. Bernstein prende spunto da tale affermazione non per contestare la rendita fondiaria o la speculazione edilizia in Germania, ma per rivendicare il diritto dei proprietari tedeschi di mettere le mani anche sulla terra dei popoli incivili ovvero delle razze deboli. Facendo riferimento alla proprietà comune del pianeta per giustificare l’espansionismo imperialistico della Germania, l’esponente socialdemocratico crede di collocarsi sul terreno del «marxismo», ma in realtà non si rende conto di riprendere un argomento classico dell’ideologia coloniale da un pezzo impegnata ad affermare che «la terra appartiene al genere umano per la sua sussistenza» e che pertanto «i popoli dell’Europa, ammassati su un territorio troppo ristretto», hanno il diritto di occupare il suolo che i «selvaggi» non sanno propriamente mettere a frutto[78]. E’ a partire da tale presupposto che gli ideologi dell’imperialismo proclamano poi il diritto di ogni popolo, e soprattutto dei popoli giovani e vigorosi, a conquistare lo «spazio vitale» necessario per la loro esistenza e il loro sviluppo.
L’incongruenza del richiamo a Marx da parte di Bernstein viene messa in evidenza già da Kautsky, il quale però si rivela non privo di indulgenze nei confronti del colonialismo («La lotta dei selvaggi contro la civiltà non è la nostra lotta») e cauto o titubante nei confronti di Bernstein[79]. Quest’ultimo è tutt’altro che isolato negli ambienti della Seconda Internazionale. Anche in Italia, dove pure più vigorosa si rivela la resistenza all’euforia colonialistica e sciovinistica, vediamo Turati condannare sì l'avventura libica ma non il colonialismo in quanto tale: «Potremmo essere abbastanza marxisti [...] per riconoscere nella conquista delle colonie una odiosa, ma fatale necessità dello sviluppo del capitalismo; sviluppo che è il presupposto dell'avvento del socialismo»[80]. E a Marx sembra richiamarsi anche Labriola a proposito del quale Benedetto Croce riferisce, compiaciuto e ammirato, questo aneddoto: «"Come fareste ad educare moralmente un papuano?"domandò uno di noi scolari[...] “Provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo poi a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti [...]»[81].
Possiamo ora comprendere la radicalità della svolta operata da Lenin:
«Prima, la questione nazionale si riduceva di solito a un gruppo ristretto di problemi che riguardavano, per lo più, le nazioni “civili”. Irlandesi, ungheresi, polacchi, finlandesi, serbi e alcune altre nazionalità dell’Europa: questo era il gruppo di popoli, privati dell’eguaglianza di diritti, delle cui sorti s’interessavano gli eroi della II Internazionale. Decine e centiniaia di milioni di uomini appartenenti ai popoli dell’Asia e dell’Africa, che subivano il giogo nazionale nella sue forme più brutali e più feroci, di solito non venivano presi in considerazione. Non ci si decideva a mettere sullo stesso piano bianchi e negri, “civili” e “non civili” [...] Il leninismo ha smascherato questa disparità scandalosa; ha abbattuto la barriera che separava bianchi e negri, europei e asiatici, schiavi dell’imperialismo “civili” e “non civili”, collegando, in questo modo, il problema nazionale al problema delle colonie».
Ad esprimersi in questi termini è Stalin, che certo non ha saputo adegutamente affrontare nella pratica la questione nazionale qui illustrata con tanta eloquenza[82]. Resta il fatto della grande carica emancipatoria e universalistica dispiegata dalla lezione di Lenin. Il testo di Stalin sopra riportato è del 1924: alcuni anni prima, nel corso della guerra mondiale, i paesi dell’Intesa non esitano ad usare le popolazioni coloniali come carne da cannone. Per nulla grato, così si esprime nel 1922 il filosofo liberale Benedetto Croce: «Si è vista la Francia sollecitare fremebonda l’aiuto da tutti, festeggiare selvaggi barbari, senegalesi e gurkas indiani che calpestavano la sua dolce terra»[83]. Sempre in questo periodo di tempo, negli USA infuria il nativismo che prende di mira ebrei, orientali e soprattutto neri; questi ultimi cominciano a non subire più passivamente, ed ecco allora che vengono accusati di bolscevismo. La loro risposta è semplice e chiara: «Se combattere per i propri diritti significa essere bolscevichi, allora siamo bolscevichi e la gente si deve mettere l'anima in pace»[84]. Lenin e la rivoluzione d’Ottobre hanno aperto un capitolo nuovo di storia, mettendo in crisi o contestando radicalmente quella che più tardi Togliatti denuncerà come la «barbara discriminazione tra le creature umane» propria della «dottrina liberale»[85] e fatta propria anche da Bernstein.

5. Critica dell’eurocentrismo e rottura della visione unilineare della storia

Non si può comprendere nulla di Lenin se non si parte dalla critica a cui egli sottopone la filosofia borghese della storia, il mito del Manifest Destiny in base al quale l’Occidente e le razze superiori si sentono investiti della sacra missione di conquistare e «civilizzare» il mondo intero, senza badare ai terribili costi umani e sociali che tutto ciò comporta. La rottura con tale mito è anche la rottura col «revisionismo» di Bernstein, il quale si limita ad esprimere blande riserve sui metodi adoperati dalle grandi potenze nel corso della loro benefica e inarrestabile espansione coloniale. Si tratta, comunque, di metodi rivelatori, e il rivoluzionario russo li descrive senza le reticenze e le indulgenze del socialdemocratico tedesco: «Non c’è limite alle violenze e al saccheggio, che si chiamano sistema inglese di governo dell’India». E, tuttavia, non è questo l’essenziale. Tali metodi non sono qualcosa di esterno al regime politico dei paesi che li adoperano, qualcosa di sostanzialmente irrilevante rispetto alla definizione della natura concreta di quel regime politico. E cioè, non si tratta tanto di lamentare il ricorso di paesi democratici a metodi antidemocratici, ma di vedere in che misura questi ultimi rendono problematica la definizione di quei paesi come «democratici». Ma problematica a questo punto si rivela anche la dicotomia civiltà/barbarie: «Gli uomini politici più liberali e radicali della libera Gran Bretagna [...] si trasformano, quando diventino governatori dell’India, in veri e propri Genghis Khan»[86]. Lenin può allora ironizzare, già nel titolo di un suo articolo, sulla tradizionale contrapposizione tra «civili europei» e «barbari asiatici»[87]. Non c’è più posto per la celebrazione dell’espansione coloniale in quanto esportazione di rapporti sociali e politici più avanzati, in quanto rivoluzione, e sia pur condotta dall’alto e dall’esterno. Certo, il «capitalismo mondiale» continua a svolgere una funzione oggettivamente progressiva, ma solo nel senso che esso provoca il risveglio di «centinaia di milioni di uomini, umiliati, abbrutiti da una stagnazione medioevale», i quali però, svegliandosi «a nuova vita e alla lotta per i diritti elementari dell'uomo, per la democrazia», finiscono con lo scontrarsi con le grandi potenze coloniali, per l'appunto dell'Occidente[88]. L’ipotesi cui aveva accennato Marx («la rivoluzione cinese» in lotta con «la vacillante dinastia Manciù» e con «le potenze europee» che l’appoggiano) sembra essere divenuta la regola. Ecco allora che le parti si rovesciano, come chiarisce un successivo articolo, L’Europa arretrata e l’Asia avanzata:
«La contrapposizione di queste parole sembra un paradosso. Chi non sa che l’Europa è avanzata, e l’Asia arretrata? Eppure le parole che formano il titolo di questo articolo racchiudono in sé un’amara verità. [...] In Asia si sviluppa, si estende e si rafforza ovunque un potente movimento democratico [...] Centinaia di milioni di uomini si svegliano alla vita, alla luce, alla libertà [...] E l’Europa "avanzata”? Essa saccheggia la Cina e in Cina aiuta i nemici della democrazia, i nemici della libertà!». E se quest'ultima dovesse intralciare i piani di saccheggio coloniale o neo-coloniale della borghesia europea? «Oh, allora l’Europa “avanzata” leverà alte grida invocando la “civiltà”, l’ordine”, la “cultura” e la “patria”! Allora farà parlare i cannoni e schiaccerà la repubblica asiatica “arretrata” [...] Tutta l’Europa che comanda, tutta la borghesia europea è alleata con tutte le forze della reazione e del medioevo in Cina»[89].
Nella misura in cui essa ha avuto luogo, la rivoluzione antifeudale e modernizzatrice si è sviluppata nei paesi in condizioni coloniali o semicoloniali scontrandosi con l’Occidente «civile» e «democratico» il quale ultimo, ancora ai giorni nostri, nonostante continui più che mai ad agitare la bandiera della «civiltà» e della «democrazia», costituisce il puntello di regimi come quello dominante in Arabia Saudita ed è pronto ad intervenire militarmente se essi dovessero essere rovesciati. Atteniamoci ancora una volta alla stampa americana che riferisce del crescente malcontento in quel paese per i privilegi feudali di una casta ereditaria e corrotta, per la quale non vale la legislazione ordinaria. Un piccolo episodio fra tanti: «Un esule ricorda che quando la sua auto schizzò un membro della famiglia reale, durante un raro temporale lo scorso anno, fu costretto, sotto la minaccia di un intervento della polizia, a chiedere formalmente scusa. Il principe aveva dieci anni». Ma ecco l’opinione di un diplomatico occidentale: «Il presente sistema va bene per noi [...] Ciò che desideriamo è un paese stabile e un buon mercato. Si tratta di un paese pro-occidentale. Immagino che un cambiamento sarebbe negativo»[90].
La liquidazione dell’idea della missione civilizzatrice della razza bianca e occidentale è in Lenin il superamento, al tempo stesso, della visione unilineare del processo storico propria della filosofia borghese della storia, la quale ultima si fonda sul presupposto della netta distinzione tra l’area della civiltà e della modernità da una parte e area della barbarie e dell’arretratezza dall’altra: il progresso è definito allora dalla progressiva estensione della prima e dalla conseguente restrizione della seconda. La crisi di tale visione si delinea già in Marx e Engels, non a caso fortemente impegnati ad appoggiare il movimento di liberazione nazionale dell'Irlanda in lotta contro un paese economicamente e politicamente più sviluppato e che pretende di rappresentare le ragioni della civiltà in una contrada arretrata e selvaggia, considerata e trattata alla stregua di una colonia. Per comprendere la profonda novità di tale impostazione, può essere utile metterla a confronto con la visione che, ancora ai giorni nostri, emerge dalle pagine di un famoso storico liberale inglese. Certo, il dominio dell’Inghilterra «espose gli irlandesi indigeni alla persecuzione e alla tirannide per molte generazioni», nonché ad uno «stato di inferiorità politica e morale» e ad un’oppressione economica: «le leggi rivolte contro l’esportazione del bestiame e delle stoffe irlandesi» comportarono la «rovina del commercio dei tessuti irlandesi» e una disperata miseria di massa. E, tuttavia -conclude edificantemente lo storico liberale- l’assoggettamento dell’Irlanda da parte dell’Inghilterra «salvò il protestantesimo in Europa e consentì all’Impero britannico di fare un balzo energico in avanti verso la prosperità, la libertà e lo sviluppo della potenza marinara, che gli erano destinati in futuro»[91].
Già in Marx e in Engels la visione unilineare del processo storico comincia a cadere in crisi per l’attenzione rivolta alla questione nazionale. Ma questa diviene centrale solo in Lenin. Se l'Ideologia tedesca sembra attribuire all’espansionismo di Napoleone il merito esclusivo della cancellazione del feudalesimo e dell'introduzione della modernità in Germania[92], il dirigente bolscevico respinge con nettezza l’idea dell’esportazione della rivoluzione in qualsiasi sua forma. Significativamente, al tempo della pace di Brest-Litovsk, paragona la lotta della giovane Russia sovietica contro l'aggressione dell'imperialismo tedesco alla lotta che, a suo tempo, contro l'invasione e occupazione napoleonica aveva condotto la Prussia, pur guidata dagli Hohenzollern; a sua volta è Napoleone a essere definito da Lenin «un pirata simile» al Guglielmo II impegnato nell'invasione della Russia sovietica[93].
Nonostante il più avanzato sviluppo economico e sociale della Francia napoleonica rispetto alla Prussia ancora fondamentalmente feudale degli Hohenzollern, è quest’ultimo paese, che subisce l’oppressione nazionale del primo, a rappresentare oggettivamente la causa del progresso. Ma, data la dimensione ormai universale assunta, nell’epoca dell’imperialismo, dalla questione nazionale, la stessa dialettica si sviluppa nel rapporto tra metropioli capitalista e colonie. Stalin ha efficacemente sintetizzato il punto di vista di Lenin:
«Nelle condizioni dell'oppressione imperialistica, il carattere rivoluzionario del movimento nazionale non implica affatto obbligatoriamente l'esistenza di elementi proletari nel movimento, l'esistenza di un programma rivoluzionario o repubblicano nel movimento, l'esistenza di una base democratica del movimento. La lotta dell'emiro afghano per l'indipendenza dell'Afghanistan è oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni dell'emiro e dei suoi seguaci [...] La lotta dei mercanti e degli intellettuali borghesi egiziani per l'indipendenza dell'Egitto è, per le stesse ragioni, una lotta oggettivamente rivoluzionaria, quantunque i capi del movimento nazionale egiziano siano borghesi per origine e appartenenza sociale e quantunque essi siano contro il socialismo, mentre la lotta del governo operaio inglese per mantenere la situazione di dipendenza dell'Egitto è, per le stesse ragioni, una lotta reazionaria, quantunque i membri di questo governo siano proletari per origine e appartenenza sociale e quantunque essi siano "per" il socialismo»[94].
E cioè, i conflitti tra paesi con un diverso stadio di sviluppo politico-sociale devono essere valutati non facendo riferimento al carattere più o meno avanzato del regime che in ognuno di essi vige, bensì a partire dalla natura oggettiva della contraddizione che tra loro si sviluppa: ecco perché, pur guidati da ceti feudali, paesi e popoli arretrati possono essere protagonisti di una giusta e progressiva lotta o guerra di liberazione nazionale, il cui bersaglio è eventualmente costituito da un governo «operaio» e laburista!
Infine -secondo Lenin, ma non, disgraziatamente, secondo Stalin- il carattere non unilineare del processo storico continua a manifestarsi anche successivamente all’avvento del socialismo in alcuni paesi. Lo stesso proletariato vittorioso può esprimere tendenze scioviniste o egemoniche, può coltivare la tentazione di «sedersi sulle spalle altrui»: e, dunque, «sono possibili sia delle rivoluzioni -contro lo Stato socialista- sia delle guerre»[95]. Anche un paese socialista non esprime necessariamente la causa del progresso. Teorizzare l’esportazione del socialismo a partire da esso significa esser prigionieri della filosofia borghese della storia: vengono solo configurati in modo diverso il campo della civiltà e della modernità da una parte e della barbarie e dell’arretrezza dall’altra, ma per il resto il progresso continua ad essere visto come l’unilineare estensione del primo ai danni del secondo, indipendentemente da qualsiasi analisi concreta della situazione concreta.

6. Dialettica oggettiva e stereotipi nazionali: Lenin e Schumpeter

All’analisi leniniana dell’imperialismo e alla tesi del suo stretto legame col capitalismo, Schumpeter obietta, nel 1919, che il paese a più avanzato sviluppo capitalistico e con meno residui pre-capitalistici alle spalle è quello dove più radicati e pervasivi sono i sentimenti di attaccamento alla pace. Un fervore pacifista caratterizza gli USA, i quali avrebbero potuto tranquillamente annettersi il Canada o il Messico, avrebbero potuto cogliere innumerevoli occasioni per entrare in guerra nell’emisfero occidentale e conseguire conquiste e, invece, sono rimasti ostinatamente fedeli alla loro vocazione di pace. La cosa più stupefacente in tale argomentazione non è il silenzio relativo ai ripetuti interventi militari statunitensi in America Latina (chiaramente non sussunti sotto la categoria di guerra) e neppure il quadro edificante tracciato di una grande potenza che, per bocca di un suo presidente (Theodore Roosevelt) ha enunciato la politica del «grosso bastone» nei confronti dei vicini e ha rivendicato per sé un «potere di polizia internazionale» nell’emisfero occidentale così come l’ha rivendicato, a livello planetario, al mondo civile nei confronti delle «razze inferiori», ovvero dei «selvaggi» e «barbari»[96]. Non conviene soffermarsi neppure sull’ingenuità dell’affermazione che pretende di dimostrare la natura intrinsecamente pacifica del capitalismo in base al suo preteso rifiuto di organizzare «eserciti di mestiere»: proprio il paese assunto a modello da Schumpeter si caratterizza oggi per il suo formidabile potenziale militare che può contare su professionisti pronti, s’intende dietro lauto compenso, a intervenire in ogni angolo del mondo o a bombardarlo sino a ricondurlo all’età della pietra. No, la cosa più stupefacente è un’altra. Costretto ad ammettere la presenza di forze non propriamente pacifiste all’interno stesso degli USA, l’economista e sociologo la spiega mettendola sul conto dei residui pre-capitalistici rappresentati dagli emigranti provenienti dall’Europa[97]! Sul versante opposto, Schumpeter è costretto a riconoscere che nel paese-simbolo del militarismo feudale l’ideale della pace perpetua ha trovato la sua più alta espressione in Kant, un filosofo prussiano, che però - viene subito precisato a scanso di equivoci - risente delle «influenze inglesi»[98]. La spiegazione di tipo storico tende a naturalizzarsi, cedendo il posto al paradigma antropologico: e così, tutto ciò che sa di bellicismo o imperialismo viene considerato estraneo agli USA, mentre se un desiderio di pace si esprime, nonostante tutto, nel mondo germanico, è chiaro che esso rinvia al pacifico mondo capitalistico anglosassone! Il bello è che ad opporsi all’ingresso degli USA nella prima guerra mondiale sono i socialisti (non poche volte cittadini di recente immigrazione) che diventano l’oggetto di un’infame campagna di persecuzione (nelle aule giudiziarie e nelle strade) che li condanna come «non-americani». Per quanto riguarda Kant, è da notare che egli, soprattutto nel periodo di tempo in cui scrive Per la pace perpetua, procede ad un’infuocata polemica contro il paese che dirige la coalizione anti-francese e controrivoluzionaria, ad una polemica che non esita a definire Pitt, il capo del governo inglese, come «un nemico del genere umano»[99]. Il saggio qui in questione contiene una dura requisitoria contro l’Inghilterra, un «paese commerciale» impegnatosi nella costruzione di un’economia di guerra (contrariamente che per Schumpeter, per Kant non c’è alcuna contraddizione tra capitalismo e tendenze guerrafondaie: proprio l’Inghilterra, in quel momento il paese capitalistico più sviluppato ha il torto, secondo il filosofo tedesco, di considerare «gli altri paesi e gli altri uomini» alla stregua di semplici «appendici» o «strumenti» della sua volontà di dominio)[100].
In realtà, il grande sociologo ed economista non fa altro che riprendere l’immagine auto-apologetica con cui gli Stati Uniti hanno tradizionalmente amato trasfigurare la loro realtà e la loro azione sulla scena politica internazionale. In Hamilton l’America assurge a luogo sacro, in quanto estraneo a «tutti i pericolosi labirinti della politica e delle guerre europee»[101]. A sua volta, Washington invita i suoi concittadini a mantenersi alla larga dagli «affanni delle ambizioni, rivalità, interessi, umori o capricci dell’Europa», di popoli che si comportano alla stregua degli «Indiani» opportunamente «castigati» dal governo statunitense[102]. Questa ideologia che legittima e celebra il primato e la missione imperiale di pace degli USA (che non sussumono sotto la categoria di guerra né le spedizioni contro i pellerossa né gli interventi pedagogici nell’emisfero occidentale) viene sottoscritta acriticamente da Schumpeter. Bisogna pur dire che, rispetto agli stereotipi nazionali cari al sociologo e economista austro-americano, l’analisi leniniana dell’imperialismo si rivela nettamente superiore, tanto più che, nel corso del successivo sviluppo della Seconda guerra dei Trent’anni, quegli stereotipi diventeranno ancora più grevi sino a configurarsi come veri e propri processi di razzizzazione anche nel paese assunto a modello da Schumpeter.

7. Stereotipi nazionali e processi di razzizzazione

Abbiamo visto Bernstein teorizzare l’esistenza di popoli «incapaci di civilizzarsi» e, ancor prima, Mill celebrare il dispotismo pedagogico nei confronti dei «barbari» ovvero delle «razze minorenni» assimilate alle specie animali superiori. E’ evidente in un caso o nell’altro la tendenza alla lettura in chiave naturalistica e quindi alla razzizzazione del diverso grado di sviluppo economico e sociale nelle colonie e nella metropoli capitalistica. Sul versante opposto abbiamo visto Lenin denunciare la pretesa di «poche nazioni elette» di dettar legge nel mondo asservendo masse sterminate cui negano persino la dignità di «popoli» e, in ultima analisi, di uomini.
Ma processi contrapposti di razzizzazione possono svilupparsi anche all’interno di una comunità internazionale che pure, in condizioni normali, non si stanca di celebrare coralmente la propria superiore civiltà rispetto alla barbarie circostante. Dato che il confine tra civiltà e barbarie è il risultato di un atto di auto-proclamazione, sono ad ogni momento suscettibili di essere relegati tra i barbari popoli e paesi coi quali si è impegnati in un aspro conflitto. Già nel 1859 Marx si fa beffe della visione che si va diffondendo in Germania, secondo cui «il crollo incombe su ogni razza in Europa, ad eccezione dei Tedeschi» i quali rappresentano il «cuore della civiltà umana»[103]. La diffusione di questo tema nell’ambito dell’ideologia tedesca costituisce un capitolo di storia abbastanza noto. Meno nota è la visione specularmente contrapposta sviluppata dai nemici del Secondo e del Terzo Reich. Già nel corso del primo conflitto mondiale, Croce fa notare che la sua lettura in chiave di scontro tra «germanesimo» e «latinità» non perde nulla del suo odioso carattere razzista, una volta che da parte italiana (o francese o inglese) essa venga ripresa rovesciandone solo il giudizio di valore: la tesi che condanna il popolo tedesco in blocco come «popolo reprobo» non è «meno stolta» di quella che lo celebra come «popolo eletto»[104]. Sono gli anni in cui gli ideologi dell'Intesa e persino personalità illustri come Hobhouse e Boutroux bollano i tedeschi come «Goti», ovvero come «i discendenti degli Unni e dei Vandali»[105]. E ad una denuncia implacabile degli Unni procede anche Churchill[106]. Ancora più radicale, se possibile, si rivela, dopo l’intervento, la pubblicistica e la propaganda di guerra degli USA che, sistematicamente e implacabilmente, dipinge i tedeschi come «barbari» che sfidano la «civiltà», come «Unni», o come selvaggi che si collocano al di sotto persino «dei pellerossa d’America e delle tribù nere dell’Africa»[107]. Soprattutto quest’ultima caratterizzazione rende evidente il legame che sussiste tra ideologia coloniale e ideologia della guerra sviluppantesi in occasione dei giganteschi conflitti tra potenze imperialistiche. La missione civilizzatrice unitariamente rivendicata dall’Occidente o dal Nord nel suo complesso nel corso delle spedizioni coloniali, viene poi agitata in polemica contrapposizione da ogni potenza o da ogni singolo gruppo delle potenze impegnate nello scontro mortale della guerra imperialista.
Di «Unni» continua a parlare nel corso del secondo conflitto mondiale Eisenhower[108], il quale scrive alla moglie: «Dio, come odio i tedeschi»[109]. E’ un «odio imperituro» che ha di mira un intero popolo[110]: «non bisogna permettere al popolo tedesco di sfuggire ad un senso di colpa, di complicità nella tragedia che ha sommerso il mondo»[111]. E si tratta -la precisazione non è priva di rilievo- di un «senso personale di colpa»[112]. E ancora: «Il tedesco è una belva»: non sembra esserci spazio per distinzioni all’interno di questo popolo maledetto: «Ho intenzione di punirli seriamente, quando avrò occasione di occuparmi di loro»[113]; bisogna trattarli «rudemente»[114]. Se anche sembra vada largamente ridimensionata l’accusa dallo storico canadese James Bacque rivolta al generale USA di aver pianificato la morte di centinaia di migliaia di prigionieri di guerra, è tuttavia indubbia -lo riconoscono anche coloro che sono impegnati nella difesa di Eisenhower- la tendenza alla razzizzazione dei tedeschi propria dello stato maggiore americano nel suo complesso. Com’è stato giustamente oservato, esso parte dal presupposto che «tutti i tedeschi sono colpevoli, benché alcuni siano più colpevoli di altri»; per questo, con una politica che sembra trattare «tutti i tedeschi come lebbrosi»,[115] lo stato maggiore americano fa inizialmente divieto alle truppe occupanti di fraternizzare con la popolazione del paese sconfitto[116]. A confermare definitivamente la labilità del confine tra civiltà e barbarie, a dimostrare cioè il fatto che l’ideologia sviluppata in funzione della legittimazione e celebrazione delle imprese coloniali finisce poi col riemergere nel corso degli aspri conflitti interni alla metropoli capitalistica, possiamo addurre due esempi. Nei primi mesi della seconda guerra mondiale, dopo aver assimilato Hitler a Attila, in questi termini Churchill invita gli italiani a rifiutarsi, nonostante Mussolini, di far causa comune con la Germania: «Nell’ultima guerra contro i barbari Unni noi siamo stati i vostri camerati [...] E’ solo un uomo che ha costretto voi, fiduciari ed eredi dell’antica Roma, a fianco dei feroci barbari pagani»[117]. Se prima dell’inizio della Seconda guerra dei Trent’anni, anche agli occhi dello statista inglese, la barbarie era collocata escluivamente al di fuori dell’Europa, nei territori coloniali, ora invece viene individuata negli Unni che minacciano la civiltà già dai tempi degli antichi Romani. Possiamo così comprendere il cartello che, sul finire del secondo conflitto mondiale, così ammonisce i soldati facenti ingresso dall’Olanda nella Germania ormai sconfitta: «Qui termina il mondo civile»[118].
Anche per quanto riguarda la guerra in Asia, conviene soffermarsi sulle pagine meno note di storia, e cioè sui processi di razzizzazione del nemico che intervengono negli stessi paesi di consolidata tradizione liberale alle spalle. Estremamente significativa è l'ideologia dei soldati USA impegnati contro il Giappone. Essa viene così descritta da uno storico americano: per «il 99 per cento», le «motivazioni più forti sono a) il nazionalismo...b) il pregiudizio razziale: disprezzano i giapponesi come i negri, sebbene in misura minore». I giapponesi vengano spesso definiti «"sciacalli" o "uomini-scimmia" o "subumani", il termine, tra parentesi, impiegato dai tedeschi nei confronti dei russi, dei polacchi e degli altri slavi»[119]. E cioè, l'ideologia dei soldati americani impegnati in Estremo Oriente è carica di motivi desunti dalla tradizione coloniale, allo stesso modo dell'ideologia dei soldati tedeschi impegnati in Europa orientale.
Alle spalle della relativa immunità dell’Unione sovietica da tali processi di razzizzazione c’è, oltre ovviamente alla lezione di concretezza storica e sociale di Marx, anche quella di Lenin il quale, proprio insistendo sulle caratteristiche oggettive dell’imperialismo, respinge le spiegazioni della guerra che la mettono esclusivamente sul conto di un immaginario popolo tedesco massicciamente e coerentemente militarista e guerrafondaio in tutto l’arco della sua storia. Il trattato di Versailles che, nell’art. 231, sancisce la colpa esclusiva della Germania, appare agli occhi di Lenin vendicativo e feroce più ancora di quello di Brest-Litovsk, e dunque espressione di una rapacità imperialistica che invano le potenze dell’Intesa considerano come un tratto inseparabile dall’essennza dei tedeschi ovvero degli Unni. Per quanto riguarda la seconda guerra mondiale, già qualche mese dopo la battaglia di Stalingrado, l’URSS favorisce la formazione di una Lega di Ufficiali Tedeschi (antifascisti) e del Comitato Nazionale Germania Libera. Nonostante le perdite e sofferenze senza nome provocate dall’aggressione della Germania nazista, e nonostante che tale aggressione sembri collocarsi su una linea di continuità risalente già ai cavalieri teutonici, ai quali d’altro canto esplicitamente si richiama Mein Kampf [120], nonostante tutto ciò, Stalin non è affatto incline alla razzizzazione in blocco dei tedeschi. Nell’agosto del 1942, dichiara:
«Sarebbe ridicolo identificare la cricca hitleriana col popolo tedesco, con lo Stato tedesco. Le esperienze della storia dimostrano che gli Hitler vanno e vengono, ma che il popolo tedesco, lo Stato tedesco rimane. La forza dell’Armata Rossa risiede in ciò che essa non nutre e non può nutrire alcun odio razziale contro altri popoli, neppure contro il popolo tedesco»[121].
Stalin è così poco propenso ad appiattire sul Terzo Reich la storia della Germania che, pur lanciando un appassionato appello all’unità nazionale nella «guerra patriottica» contro gli invasori nazisti, denuncia Hitler come il continuatore, per alcuni aspetti essenziali, dello zarismo abbattuto dalla rivoluzione russa:
«Nella sua essenza, il regime di Hitler è una copia di quel regime reazionario che in Russia è esistito sotto lo zarismo. E’ noto che gli hitleriani calpestano i diritti degli operai, i diritti degli intellettuali e i diritti dei popoli, così come li ha calpestati il regime zarista, e che essi scatenano medioevali pogrom contro gli ebrei così come li ha scatenati il regime zarista.
Il partito hitleriano è un partito dei nemici delle libertà democratiche, un partito della reazione medioevale e dei pogrom più tenebrosi».
Non si tratta di uno spunto isolato. Ripetutamente, i nazisti vengono bollati come gli «eroi dei pogrom» che invano cercano di camuffare o abbellire la loro «reazionaria natura progromistica»[122]. D’altro canto, già negli anni precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale, prima del suo misterioso assassinio, Kirov denuncia «il fascismo tedesco, con la sua ideologia dei pogrom, il suo antisemitismo, la sua visione di razze superiori e inferiori», come l’erede dei Cento Neri russi[123].
Se i dirigenti sovietici si preoccupano di distinguere tra «cricca hitleriana» e popolo tedesco, Franklin Delano Roosevelt così si esprime:
«Dobbiamo essere duri con la Germania e intendo il popolo tedesco, non soltanto i nazisti. Dobbiamo castrare il popolo tedesco o trattarlo in modo tale che non possa proprio più continuare a riprodurre gente che voglia comportarsi come nel passato»[124].
L’idea della «castrazione» esprime con chiarezza il compiuto processo di razzizzazione del nemico. Si comprende l’indignata reazione di Benedetto Croce, il quale, nel ribadire la «natura storica» del «male» costituito dal regime e dall’ideologia hitleriani, sottolinea come le invocate «sterilizzazioni» imitino in realtà l’«esempio dato dagli stesi nazisti»[125]. In effetti, negli anni del Terzo Reich, la «soluzione finale» è preceduta da ricorrenti programmi o suggestioni di «sterilizzazione in massa degli ebrei»[126]. Epperò, è da tener presente che, già nel corso del primo conflitto mondiale, un pio e ascoltato pastore americano invoca la sterilizzazione coatta dei tedeschi[127]. Oltre 25 anni dopo, ad avvertire la seduzione di questa idea, da realizzare a danno sia dei tedeschi che dei giapponesi, è per l’appunto Franklin Delano Roosevelt, che, nei confronti dei nemici asiatici, coltiva per un attimo un’idea ancora più straordinaria, quella dell’«incrocio forzato con gli abitanti del Mare del Sud in modo da sradicare la barbarie dei giapponesi»[128].
La razzizzazione del nemico apre il varco a forme di violenza che investono un intero popolo e che quindi vanno in direzione del genocidio. Nell’aprile del 1941, Churchill dichiara: «Ci sono meno di 70 milioni di unni malvagi. Alcuni (some) di questi sono da curare, altri (others) da uccidere: fra questi ultimi, molti sono già impegnati nell’opprimere austriaci, cechi, polacchi, francesi e le numerose altre antiche razze che essi ora tiranneggiano e saccheggiano»[129]. Non sembrano essere molti i barbari tedeschi suscettibili di essere curati e cooptati nel mondo civile. Forse non è senza rapporto con tale visione la decisione del governo e dello stato maggiore britannico di procedere a bombardamenti aerei miranti a provocare il maggior numero possibile di vittime tra la popolazione civile tedesca, con la distruzione sistematica in primo luogo dei quartieri popolari (dove più elevata è la densità abitativa)[130]; Churchill è tra i protagonisti del varo di tale piano, senza lasciarsi inceppare dal ricordo che alla fine della prima guerra mondiale si era battutto perché fossero processati come criminali di guerra i piloti tedeschi, protagonisti di bombardamenti senza dubbio molto più blandi[131].
Se Franklin Delano Roosevelt dichiara a Yalta di sentirsi «più assetato di sangue che mai verso i tedeschi»[132], suo figlio Elliott, si pronuncia per il bombardamento del Giappone «fino a che avremo distrutto la metà della popolazione civile»[133]. Si tratta di sentimenti e suggestioni largamente diffusi: stando ad un sondaggio del novembre 1944, il 13 per cento degli americani è propenso all’annientamento dell’intera popolazione giapponese; d’altro canto, interrogati sul da da farsi col paese asiatico ormai distrutto e prostrato, un gruppo di ufficiali addestrati per essere membri del futuro governo militare risponde: «Lasciar morire d’inedia i bastardi gialli»[134]. In tale contesto dev’essere probabilmente collocato il piano Morgenthau (ministro USA del Tesoro) che si propone il radicale smantellamento dell’apparato industriale della Germania e la sua conseguente «pastoralizzazione». Se l’URSS vede in tale piano la possibilità di annettersi una massa considerevole di macchinari tedeschi (a compensazione delle perdite e degli smantellamenti subiti nel corso della guerra) e l’Inghilterra vi vede l’agognata occasione per spazzar via una volta sempre dal mercato mondiale un pericoloso rivale, non mancano esponenti dell’amministrazione americana che mirano coscientemente a mantenere la popolazione della Germania ad un semplice «livello di sussistenza», in modo da far «soffrire i tedeschi per i loro peccati» e imporre loro «le torture che essi hanno inflitto ad altri»[135]. Ancora una volta, un intero popolo viene preso in blocco e considerato collettivamente colpevole e peccaminoso, con una totale rimozione delle spietate persecuzioni a cui il Terzo Reich aveva sottoposto i suoi oppositori interni.
Qualunque sia il giudizio politico e morale che si dà di Stalin, resta il fatto che egli, tenendo presente la lezione leniniana, insiste sul fatto che la genesi e le modalità della guerra «non si possono spiegare mediante le caratteristiche personali dei giapponesi e dei tedeschi»[136]. Quando sul finire del conflitto, lo scrittore Ehrenburg, lasciandosi prendere la mano, afferma che i tedeschi sono «tutti una banda», ecco che interviene duramente la «Pravda» a condannare questi stereotipi e a ricordare la dichiarazione già vista del leader sovietico dell’agosto 1942[137]. Un tale atteggiamento può ben aver corrisposto a calcoli diplomatici e esigenze propagandistiche senza per questo cessare di essere emblematico.
Comunque, a conferma della tesi qui da me avanzata può essere addotta l’osservazione di uno storico ben lungi dall’essere sospettabile di indulgenza nei confronti della rivoluzione d’Ottobre e del paese da essa scaturito. Secondo Ernst Nolte,
«è lecito considerare un merito del comunismo sovietico il fatto che, nel corso della guerra, solo per breve tempo esso ha assunto la rappresentazione oggi chiamata “razzistica” -gli Slavi contro i Tedeschi- per ritornare invece abbastanza presto alla rappresentazione secondo cui c’erano, nel popolo tedesco, nazionalsocialisti o fascisti, antifascisti, non-nazionalsocialisti e anti-nazionalsocialisti. Il soggetto di cui si trattava era costituito dal nazionalsocialismo o forse dal capitale monopolistico che era dietro di esso. Questa è piuttosto una rappresentazione storica, mentre all’Ovest, curiosamente e paradossalmente, si è manifestata una sorta di replica della rappresentazione cara al nazionalsocialismo, secondo cui i soggetti sono i popoli. Così procedeva anche la letteratura di guerra degli alleati: da Arminio a Hitler, da Lutero a Hitler ecc.»[138].
Naturalmente, la brutalità della Seconda guerra dei Trent’anni si fa sentire in pieno nella condotta dell’Unione Sovietica di Lenin e, ancor più, in quella di Stalin. Il quale ultimo, alla conferenza di Teheran del 1943, propone in un brindisi la fucilazione sommaria di 50 mila ufficiali tedeschi in modo da liquidare una volta per sempre la potenza militare dell’odiata Germania. Ciò suscita lo sdegno di Churchill. E’ vero: l’abbiamo visto formulare, due anni prima, un programma ben più «radicale»: ed è vero altresì che, ancora prima della disfatta del Terzo Reich, lo statista inglese si muove già con lo sguardo rivolto alla guerra fredda e a partire dunque dal calcolo di «indebolire la Germania [solo] quanto bastava per farne un utile satellite contro la Russia»[139]. (D’altro canto, ancora nel 1937, sia pur nell’ambito di un atteggiamento oscillante e contraddittorio, Churchill aveva parlato di Hitler come di un «campione [...] indomabile» della lotta contro il bolscevismo[140]). Resta il fatto che al conservatore primo ministro britannico spetta il merito di essersi solitariamente opposto ad una proposta o ad una suggestione in stridente contraddizione con ogni norma di diritto internazionale, come quella emersa a Teheran. Nei confronti di Stalin, non sollevano invece obiezioni né Roosevelt, né tanto meno suo figlio Elliott, il quale anzi rincara la dose con un brindisi alla morte di «non solo cinquantamila...ma anche di altre centinaia di migliaia di nazisti», aggiungendo poi: «sono sicuro che l’esercito degli Stati Uniti sarà ben d’accordo»[141]. In effetti Eisenhower esprime l’idea che debbano essere «sterminati» non solo i 3.500 ufficiali dello stato maggiore tedesco, ma anche tutti i membri della Gestapo, nonché tutti i capi del partito nazista, dai sindaci in su: «sarebbero stati» -commenta lo storico canadese già citato- «circa 100.000 persone»[142]. Infine, nel febbraio 1945, a Yalta, è il presidente USA a ritornare sul tema: pieno di collera alla vista delle distruzioni causate dall’esercito nazista in ritirata, dinanzi a Stalin dichiara, come sappiamo, di sentirsi «più assetato di sangue che mai verso i tedeschi». Il leader sovietico gli fa notare che le devastazioni da lui viste non solo nulla in confronto a quelle che subite dall’Ucraina. Roosevelt replica allora: «(Spero che vorrete) proporre ancora un brindisi alla fucilazione di cinquantamila ufficiali dell’esercito tedesco”»[143].
L’idea brutale e spietata qui in questione esprime la volontà di abbattere un ostacolo o di liquidare la resistenza del nemico senza farsi inceppare dal principio della responsabilità individuale: caratteristica essenziale del fenomeno «totalitario» è per l’appunto l’affossamento di tale principio che, nel corso della Seconda guerra dei Trent’anni, si manifesta, sia pure con modalità diverse, in tutti paesi coinvolti nello scontro, compresi quelli di più consolidata tradizione liberale alle spalle. fenomeno qualitativamente diverso è, però, il processo di razzizzazione di un intero popolo, al quale, in virtù della lezione storica di concretezza di Marx e Lenin, l’URSS resiste ben più sia dei suoi nemici che dei suoi alleati.

8. Razzismo, contro-razzismo, universalismo

Ritorniamo al tema dell’attualità o inattualità di Lenin. Leggiamo il discorso di insediamento di Bill Clinton: l'America è «la più antica democrazia del mondo». I pellerossa e i neri continuano ad essere una quantité negligeable, la cui sorte non interviene in alcun momento ad offuscare il quadro luminoso della democrazia americana. Questa -prosegue il «democratico» presidente USA- «deve continuare a guidare il mondo»: «la nostra missione è senza tempo». Il silenzio sul genocidio delle popolazioni indigene e sulla tratta e la schiavitù dei neri (che, al momento della fondazione degli USA, costituiscono il 20% della popolazione complessiva) è il silenzio tipico dei miti di fondazione degli imperi. Il quadro tracciato da Clinton della storia del suo paese ha, sul piano storiografico non certo su quello poetico, lo stesso valore dell'Eneide che celebra la fondazione di Roma ad opera di un personaggio di lignaggio nobile e anzi divino (è figlio della dea Venere) per poi concludere: «Tu regere imperio populos, Romane, memento»! D’altro canto, la rimozione di un genocidio può ben essere funzionale alla consumazione di un altro: nei confronti degli irakeni o dei cubani gli USA posono continuare a comportarsi con la stessa buona coscienza missionaria di cui hanno dato prova in relazione ai pellerossa o ai neri.
Questi ultimi danno segni di crescente insofferenza, se non sul piano più immediatamente politico, per lo meno su quello culturale. In occasione dell’inaugurazione del mausoleo dedicato all’Olocausto, i superstiti delle tribù indiane si sono chiesti perché un analogo mausoleo non venga innalzato negli USA a ricordo del genocidio qui propriamente consumatosi. A loro volta, i militanti neri sottolineano, in polemica contro l’ideologia dominante, la centralità che nella storia americana ha quello che essi definiscono il Black Holocaust. Il fatto è -osservano- che la «schiavizzazione fisica» è stata sì sostituita dalla «schiavizzazione psicologica», ma senza cancellare il rapporto di dominio che continua a manifestarsi sul piano culturale[144]. Si tratta di una protesta perfettamente giusta contro la permanente ipocrisia della storiografia e della cultura occidentale nel suo complesso (il già citato discorso del presidente americano ha provocato entusiasmi e deliri anche in settori consistenti della «sinistra» italiana che non ha notato o non ha ritenuto valesse la pena soffermarsi sulla colossale rimozione storica che lo caratterizza). Ma l’odierna protesta nera non si limita a mettere in stato d’accusa la falsa coscienza dell'Occidente e del suo paese-guida. Andando ben oltre, ecco alcuni intellettuali e militanti neri celebrare la superiorità del pensiero nero con la sua «dimensione emozionale» rispetto all’«educazione occidentale», colpevole di aver «storicamente subordinato i sentimenti» per dare valore esclusivamente a «comunicazione e calcolo»[145]. Non ha già Leopold Senghor formulato la tesi secondo cui «l’emozione è nera» mentre «la ragione è ellenica»?[146]. In tale prospettiva, i bianchi appaiono freddi, individualistici e materialistici: costituiscono il «popolo di ghiacco» che ha impresso nella storia del mondo «dominio, distruzione e morte», ovvero le tre D, «domination, destruction and death». La tradizione culturale, filosofica e politica dell’Occidente (e del mondo bianco) diviene ora sinonimo di pensiero calcolante e volontà di potenza, caratteristiche queste che sembrano connaturali alla razza dei dominatori che ha dettato legge e si è sempre gloriata di aver dettato legge nel mondo[147]. Sul versante opposto, le vittime della volontà di potenza e del pensiero calcolante diventano l’incarnazione di un pensiero, di una cultura, di un modo di essere totalmente altro che solo può imprimere alla storia del mondo un corso diverso rispetto a quello sinora seguito.
Un bilancio analogo viene tracciato da certi settori del movimento femminista, con la variante per cui al posto dell’umanità bianca subentra il genere maschile, mentre l’antitesi rispetto al pensiero calcolante e alla volontà di potenza viene ora rappresentata non più dai neri o da un’altra razza oppressa, bensì dal genere oppresso, dal genere femminile. In questo medesimo contesto vanno collocate le mitizzazioni che storicamente si sono verificate del «buon selvaggio» ovvero le ingenue trasfigurazioni, in chiave populistica o «marxistica», delle classi subalterne tradizionalmente razzizzate dall’ideologia dominante. Si tratta, in ultima analisi, di forme di contro-razzismo e contro-sessismo. Ovviamente, contro-razzismo e contro-sessismo non sono la stessa cosa di razzismo e sessismo. La violenza degli oppressi (in questo caso, la violenza culturale che monopolizza certi valori a vantaggio di una razza o di un genere o di una classe) non può essere messa sullo stesso piano della violenza degli oppressori. E, tuttavia, resta il fatto che all’interno di movimenti di emancipazione etnica, sessuale o sociale si può manifestare la tendenza a riprendere certi stereotipi della cultura conservatrice e reazionaria, sia pure con giudizio di valore rovesciato. Per secoli la discriminazione a danno delle «razze inferiori» o delle donne è stata motivata con la loro incapacità ad argomentare in termini rigorosamente e astrattamente logici e con la loro mancanza di coraggio e di spirito guerriero, con la loro tendenza lasciarsi guidare dai sentimenti e dall’emotività[148]. Il rovesciamento del giudizio di valore non aggiunge credibilità a tali stereotipi e dicotomie.
Può essere interessante esaminare in che modo il problema qui accennato viene affrontato da Lenin, particolarmente attento, come abbiamo visto, alla sorte degli esclusi dalla democrazia e dalle regole del gioco. Inflessibile è la denuncia cui procede il rivoluzionario russo della politica di aggressione e di genocidio delle potenze coloniali:
«Ciò significa forse che l'Occidente materialista è putrefatto e che la luce splende solo dall'Oriente mistico, religioso? No. Proprio l'opposto. Significa che l'Oriente si è incamminato definitivamente sulla via dell'Occidente, che altre centinaia e centinaia di milioni di uomini parteciperanno d'ora innanzi alla lotta per quegli ideali per i quali l'Occidente ha cessato di battersi. Putrefatta è la borghesia occidentale...» [149].
E, dunque, la requisitoria pronunciata contro l'imperialismo e l’Occidente non sfocia nell'evocazione di un Oriente mitico e incontaminato. In realtà, il dirigente rivoluzionario russo, lettore di Hegel oltre che di Marx, non si nasconde il diverso grado di sviluppo politico e sociale in Occidente e in Oriente: «in Europa» abbiamo l’«esistenza di una stampa più o meno libera, di una rappresentanza popolare, di una lotta elettorale e di partiti politici già formati [...] In Asia, di cui anche la Russia fa parte» non c’è nulla di tutto questo, ma l’oppressione e l’ignoranza delle masse popolari e «i pregiudizi che alimentano la fede nello zar-piccolo padre». La celebrazione del risveglio dei popoli coloniali non solo non è in contraddizione ma procede di pari passo con la celebrazione dello «spirito europeo» e del suo irrompere in paesi e continenti dove esso non si è ancora fatto avvertire[150]. Sun Yat-sen, protagonista della rivoluzione democratica cinese ha non a caso una «cultura europea»: sì è dall’Europa e America che i cinesi hanno tratto le loro «idee di libertà»[151]. In questo senso il «capitalismo mondiale» svolge una funzione oggettivamente progressiva, senza la sua estensione e crescente influenza non si comprenderebbero movimenti che hanno «definitivamente risvegliato l’Asia» e che sono impegnati nella «lotta per i diritti elementari dell’uomo, per la democrazia»[152]. Ma proprio ereditando i punti alti della tradizione europea e occidentale, i paesi in condizioni coloniali o semicoloniali sono costretti a scontrarsi con le grandi potenze europee e occidentali. L’emergere in India dello «spirito “europeo”» e della «coscienza democratica» comporta lo scontro con l'Inghilterra liberale e coloniale e l’arbitrio dei governanti inglesi: in questo senso ciò che di meglio rappresenta lo «spirito europeo» si incarna nei movimenti di lotta anti-colonialisti che si sviluppano in Asia contro le grandi potenze occidentali[153].
Risulta così l’assurdità di chi interpreta Lenin come «il prodotto piuttosto della reazione russa all’Occidente che del marxismo»[154]. Ancora dopo la rivoluzione d’Ottobre, il paese che ha preso il posto della Russia e sul quale continua però a farsi avvertire il peso della tradizione zarista, il paese che in condizioni di drammatica difficoltà cerca di costruire un apparato statale «veramente nuovo» e che «meriti veramente il nome di socialista, di sovietico, ecc.» è chiamato ad imparare dai «migliori modelli dell'Europa occidentale», inviando «alcune persone preparate e coscienziose» in Germania o in Inghilterra o in America e nel Canada «per raccogliere le pubblicazioni esistenti e per studiare questo problema»[155].
Si tratta di ereditare i punti alti della storia dell'Occidente, non perdendo di vista il fatto che la stessa requisitoria contro di esso è costruita a partire da categorie e materiali elaborati dalle sue correnti di pensiero e dai suoi movimenti politici più avanzati, quelli che hanno saputo riflettere criticamente e autocriticamente sugli orrori di una conquista e di una dominazione planetaria che la barbara ideologia dominante continua a trasfigurare come una Crociata contro la «barbarie». A loro volta, questi punti alti non sono il risultato di un’evoluzione tutta interna all’Occidente e prodottasi in modo spontaneo e indipendente da ogni sfida esterna. Pur nettamente più avanzata rispetto alla tradizione liberale, la quale copre lo sterminio dei pellerossa e teorizza tranquillamente, per dirla con Marx, la «caccia ai pellenera», la rivoluzione francese non sente immediatamente in contraddizione la proclamazione dei diritti dell’uomo con la permanenza della schiavitù nelle colonie. A sottolineare con forza l’antitesi, e quindi a stimolare il decreto di emancipazione nel 1794 varato dalla Convenzione giacobina provvedono gli schiavi neri insorti a S. Domingo, i quali rivendicano la loro dignità di uomini e quindi sono fra i primi a voler conferire valore universale ai diritti dell’uomo, contribuendo quindi a gettare le basi di quell’«individualismo» (intendendo con ciò il ricoscimento di ogni individuo, indipendentemente dal censo, dal sesso o dalla razza, come soggetto titolare di diritti inalienabili), che oggi i patiti dell’Occidente vorrebbero trasformare in un monopolio esclusivo e, in ultima analisi, in una sorta di ideologia della guerra.
Considerazioni analoghe si possono fare in relazione alle clausole d’esclusione che per secoli hanno pesato sulle donne. La cultura illuministica e rivoluzionaria francese, che pure un contributo così rilevante fornisce alla denuncia del pregiudizio e dell’oppressione maschilistica (si pensi a Condorcet), si rivela complessivamente incapace di intendere in senso veramente universale il soggetto titolare dei diritti dell’uomo solennemente proclamati. Robespierre che giudica la restrizione censitaria dei diritti politici in stridente contraddizione con la proclamazione dei diritti dell’uomo[156] e che, sia pur faticosamente, giunge a condannare, e in termini commossi ed eloquenti, la restrizione razziale dei diritti politici (e civili), si rivela incapace di superare la discriminazione sessuale. Al processo di universalizzazione del soggetto titolare dei diritti dell’uomo danno in primo luogo impulso gli esclusi (si tratti dei proletari, degli schiavi, dei popoli coloniali, delle donne). Sì, la Convenzione giacobina e Robespierre hanno il merito storico di abolire, nel 1794, la schiavitù nelle colonie, ma a tale passo contribuisce in modo decisivo la rivolta degli schiavi neri di S. Domingo, dei «giacobini neri»; oltre un secolo più tardi, a formulare una critica coerente e sistematica del colonialismo e della «missione» occidentale o bianca, a teorizzare e promuovere le rivoluzioni anticoloniali è un rivoluzionario proveniente da un paese sì esso stesso imperialista, epperò collocato ai margini dell’Occidente capitalistico. E’ merito di Lenin aver richiamato l’attenzione sulle clausole d’esclusione proprie della tradizione liberale, a cominciare da quella che pesa sugli «schiavi delle colonie».Nella stessa metropoli capitalistica, oltre a frapporre «ostacoli di fatto» alla partecipazione popolare alla vita politica, la classe dominante ricorre a «“piccoli” (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale» che esclusono dai diritti politici le donne e lo «strato inferiore propriamente proletario“»[157]. Il pensiero del rivoluzionario russo si distingue per questa sua attenzione agli esclusi e la sua implacabile denuncia degli stereotipi e dei processi di razzizzazione, il suo rifiuto di contrapporre stereotipo a stereotipo, lo sforzo costante di ricomporre l’unità della storia mondiale e del genere umano. L’universale da costruire -sottolinea Lenin citando e sottoscrivendo la «formula magnifica» della Logica di Hegel- dev’essere tale che abbracci in sé «la ricchezza del particolare»[158].

9. Scontro di civiltà?

Il saggio di Lenin sull’imperialismo riporta e condanna gli appelli dei più esagitati profeti dell’Europa e dell’Occidente a azioni «in comune» contro il mondo islamico che in quegli anni comincia ad essere in fermento e agitarsi[159]. Come non pensare alla guerra santa contro l’Islam oggi proclamata dagli ideologi dell’Occidente? Ad agitare tale motivo non sono solo politici come Umberto Bossi il quale, recentemente, ha giustificato o celebrato i bombarda­menti su Mogadiscio o su Baghdad come un essenziale contributo degli USA alla causa del contenimento della barbarie mussulmana e africana. Quando Popper chiama a soggiogare i barbari pensa in primo luogo proprio al mondo arabo, e la pax civilitatis che ad essi dev’essere imposta è chiaramente la pax occidentalis. Piuttosto che di scontro tra civiltà e barbarie, un autore americano divenuto ormai celebre, Samuel P. Huntington, preferisce parlare di «scontro di civiltà» (clash of civilisations), ma è il significato è sostanzialmente il medesimo, dato che è solo la civiltà occidentale a rappresentare la causa dell’«individualismo», dei «diritti umani, uguaglianza, libertà», tolleranza ecc.[160]. Eppure è lo stesso autore a riconoscere che il «fondamentalismo» non è affatto un fenomeno esclusivamente islamico e ad ammettere, altresì, l’ipocrisia e la brutalità dell’Occidente nei suoi rapporti con l’Islam. La «comunità internazionale», chiamata a conferire legittimità alla crociata anti-irakena e ad altre analoghe, è in realtà solo il sinonimo eufemistico del «mondo libero» dei tempi della guerra fredda, e cioè dell’Occidente[161]. Il comportamento di quest’ultimo viene così descritto:
«Dopo aver sconfitto il più forte esercito arabo [quello irakeno], l’Occidente non esita a far sentire il suo peso sul mondo arabo [e sulla Libia in particolare]. L’Occidente sta in effetti usando istituzioni internazionali, potere militare e risorse economiche per imporre un governo del mondo che mantenga il predominio occidentale, difenda gli interessi occidentali e promuova i valori politici ed economici occidentali»[162].
Ecco che, accanto ai valori, emergono anche i corposi «interessi», la cui difesa è al centro della guerra del Golfo e del permanente emargo e delle altre misure con cui i padroni del mondo cercano di strangolare l’Irak e la Libia e di ridurre all’obbedienza un’area di così rilevante importanza sul piano economico e strategico. Huntington riconosce in qualche modo tutto ciò, e, tuttavia, continua a considerare l’Occidente come l’interprete esclusivo dei «diritti umani» e persino dell’ideale dell’«eguaglianza». Ancora una volta la democrazia non viene fatta valere per i rapporti internazionali e dall’uguaglianza continuano ad essere esclusi i barbari. Non a caso, il saggio in questione si chiude con un appello all’Occidente a «mantenere il potere economico e militare necessario per proteggere i suoi interessi»[163] (a questo punto i valori non sembrano più giocare un ruolo significativo).
La tesi dello «scontro di civiltà» occulta i reali contenuti del contrasto tra Occidente e mondo arabo, finendo col trasfigurare ideologicamente la tradizionale politica coloniale ed imperiale delle grandi potenze che si autoproclamano rappresentanti uniche se non della civiltà in quanto tale, comunque della civiltà autentica. All’Ovest niente di nuovo: si potrebbe allora concludere. Ormai dovrebbe risultar chiaro a tutti: la spedizione anti-irakena ha rappresentato una «autentica cesura geopolitica» nel rapporto tra Occidente e mondo arabo, rafforzando i movimenti islamisti e fondamentalisti[164]. «Persino gli intellettuali francofoni del Maghreb, per molto tempo considerati dai loro compatrioti come la “quinta colonna della Francia”, hanno assunto posizioni antioccidentali»[165]. Lo riconosce anche Huntington: abbastanza presto gli intellettuali e le masse del mondo arabo si sono accorti dell’inganno che la strapotenza multimediale delle grandi potenze cercava di far passare. La guerra del Golfo ha visto non «il mondo contro l’Irak» bensì «l’Occidente contro l’Islam»[166]. Anche la consapevolezza nelle vittime dell’arroganza bianca o occidentale della reale identità dei soggetti in conflitto non è propriamente un fatto nuovo. La tragica novità, in seguito al venir meno di un movimento anti-imperialista capace di mettere a frutto la lezione leniniana, risiede piuttosto nel fatto che il mondo arabo comincia ad interpretare lo scontro con le medesime categorie dei suoi nemici. Come Huntington, anche alcuni intellettuali arabi teorizzano ormai le «guerre di civiltà», di cui quella del Golfo costituirebbe il primo esempio[167].
L’indebolirsi o il disgregarsi di una posizione capace di congiungere la critica dell’Occidente al riconoscimento dei suoi punti alti e della valenza universale della sua eredità spiega il fatto che i movimenti di resistenza alla politica egemonica ed imperiale delle grandi potenze e degli USA tendano ad assumere sempre più la forma di guerra di religione e di civiltà. Rotto l’equilibrio tra critica dell’Occidente ed eredità dei suoi punti più alti, alla guerra santa dell’Occidente corrisponde la guerra santa dell’Islam. E’ una situazione estremamente gravida di pericoli quella che si va delineando. A paventarla, sia pure in una situazione profondamente diversa da quella attuale, è stato una grande personalità politica chiaramente influenzata dalla lezione di Lenin. Nel 1954, Togliatti così mette in guardia l’Europa e gli USA impegnati a contenere i movimenti di emancipazione anti-coloniale in quegli anni in crescita impetuosa:
«Anche se dovesse continuare, tra il mondo «occidentale» e i popoli asiatici, l’attuale stato di guerra fredda e semiguerreggiata, la catastrofe si delinea lo stesso, perché è insita nella rottura, che questa guerra fredda comporta, tra due parti del mondo il cui compito storico attuale è invece quello di comprendersi e avvicinarsi [...] Anche se non si giungerà ora a una guerra aperta, una catastrofe storica di dimensioni enormi è già in germe in tutto questo»[168].
La catastrofe dello «scontro di civiltà» e delle guerre di religione si delinea ai giorni nostri più nettamente. Invece di procedere ad una riflessione autocritica, l’Occidente sembra voler chiamare ad una crociata contro il fondamentalismo da esso stesso evocato e alimentato con la sua arroganza imperiale che in certi casi non esita a condannare all’inedia interi popoli. Di tale situazione e di tale politica è espressione il saggio di Huntington.
C’è contraddizione tra la tesi dello «scontro di civiltà» e quella della «fine della storia» espressa da Fukujama? L’intervento di questo filosofo-funzionario del Dipartimento di Stato americano è stata spesso interpretato come il preannuncio della fine dei conflitti e delle guerre. Ma si tratta di letture superficiali: in realtà, la tesi della «fine della storia» costituisce una piattaforma ideologica delle crociate dell’Occidente che, avendo ormai conseguito lo stadio finale del processo storico (rappresentato dalla società capitalistica e liberale), è chiamato ad innalzare anche il Terzo Mondo, mediante opportune spedizioni militar-pedagogiche, al livello dei paesi più avanzati, in modo da edificare lo «Stato universale omogeneo»[169]. Quello che per Fukuyama è lo scontro tra Occidente liberale (e individualistico) che ha conseguito la fine della storia e barbari o semi-civili ancora al di qua di tale stadio, è per Huntington lo scontro tra civiltà occidentale (l’unica autentica perché l’unica rispettosa dell’«individualismo» e di dei «diritti dell’uomo») e civiltà ancora al di qua della tolleranza liberale. La differenza rilevante è solo nel maggior realismo e nella maggior franchezza del secondo autore che si fa poche illusioni sulla realizzazione dello «Stato universale omogeneo» e finisce col riconoscere che lo «scontro di civiltà» tende a configurarsi come scontro i cui soggetti sono «kin-countries»[170], cioè stirpi diverse e contrapposte.
Ma, pur esprimendosi in periodiche spedizioni punitive contro i barbari e gli esclusi dalla civiltà autentica, questo Nuovo Ordine Internazionale garantisce almeno la pace tra le grandi potenze, la fine di quelle che Huntington chiama le «guerre civili occidentali» (fra le quali va inserita la stessa guerra fredda)?[171]. Intanto, si tenga presente che, secondo l’autore qui in questione, dell’Occidente propriamente detto non fanno parte né la Russia di Eltsin né il Giappone: quest’ultimo, poi, è l’unico paese a sfidare l’Occidente anche sul piano economico. La «sfida economica»[172] s’intreccia con lo scontro di civiltà, ed è in tale quadro che bisogna collocare «le relazioni sempre più difficili tra il Giappone e gli Stati Uniti: le differenze culturali esacerbano il conflitto economico»[173]. Ma si può considerare omogenea e priva di tensioni almeno il mondo occidentale propriamente detto? Huntington ci assicura che per quanto riguarda le due «sottociviltà» in cui esso si divide, l’Europa e gli USA, «la competizione economica chiaramente predomina»[174]. E, tuttavia, risulta con chiarezza che il conflitto Nord-Sud non è disgiunto dalle contraddizioni interne alle grandi potenze capitalistiche: solo che, sia quel conflitto, sia queste contraddizioni vengono descritte in termini di scontro tra «civiltà» o «sottociviltà» diverse e contrapposte. Una tale trasfigurazione è tutt’altro che nuova: già la prima guerra mondiale è stata spesso vissuta e interpretata ad opera dei suoi protagonisti e ideologi come Kulturkrieg, come scontro tra civiltà democratica e individualistica da una parte e civiltà autoritaria e gregaria o comunitaria (a seconda del giudizio di valore) dall’altra. Ed è sintomatico il fatto che stereotipi analoghi circolino a «spiegazione» delle contraddizioni ormai evidenti tra USA, Giappone ed Europa[175]. E, sulla scia di tali stereotipi, ecco cominciare a delinearsi i processi di razzizzazione dell’avversario. Sull’«International Herald Tribune» possiamo leggere: «I giapponesi sono ancora un popolo altamente emotivo [...] Il Giappone non è una nazione qualunque. L’Occidente ha avuto la saggezza di riconoscere tale fatto; farebbe bene a tener fermo a tale saggezza»[176]. Un’ideologia e una cultura che non si stanca di far professione di individualismo e di nominalismo politico, non esita ad abbandonarsi, alle prime avvisaglie del conflitto, a visioni «olistiche» che non lasciano spazio a distinzioni interne.In conclusione, ai giorni nostri finiscono col riemergere tutti gli stereotipi (sia quelli che presiedono alle crociate e alle spedizioni coloniali sia quelli che sempre hanno accompagnato i conflitti inter-imperialisti) contro i quali Lenin ha sviluppato la sua implacabile e lucida polemica.
[1] Y. M. Ibrahim, Broken and Beaten, Iraq Slides Into ‘Surreal Poverty”, in «International Herald Tribune» del 26 ottobre 1994.
[2]Giuseppe Zaccaria, Un milione in pericolo. La fame da embargo spaventa anche l’Onu, in «La Stampa» del 13 ottobre 1994.
[3] Y. M. Ibrahim, Dead End for Iraq in Sanctions Battle, in «International Herald Tribune» del 19 ottobre 1994.
[4] Ch. Krauthammer, Clinton Should Do More Than Just Stand Firm, in «International Herald Tribune» del 15-16 ottobre 1994.
[5] W. Safire, The Hope for Iraqis Is Saddam Hussein’s Overthrow, in «International Herald Tribune» dell’11 ottobre 1994.
[6] The New York Times, A Decisive Clinton, in «International Herald Tribune» del 12 ottobre 1994.
[7] C. Chandler, Mirage of Wealth in Saudi Desert. Strapped for Cash, Kingdom Is Facing Budget Cuts, in «International Herald Tribune» del 29-30 ottobre 1994.
[8] J. K. Cooley, Oil Revenue: 20 Million Iraqis Are Trapped Between the Battle Lines, in «International Herald Tribune» del 18 ottobre 1994.
[9] M. Ciriello, Spettri nella terra del Profeta. La Cia: l’integralismo minaccia Riad, in «La Stampa» del 29 ottobre 1994.
[10] Cfr. A. Benantar, Gli Arabi e l’Ovest: mettete in soffitta le crociate, in «Limes», n. 3; 1994, pp. 24-25.
[11]Un film su Lockerbie (non firmato) in «la Repubblica» del 13 novembre 1994.
[12] E’ quello che chiarisce I. Man (Prigioniero nel suo labirinto, in «La Stampa» del 1 aprile 1992), citando l’ambasciatore russo a Tripoli, Beniamin Popov.
[13] G. Riotta, E nell’anno 2012 i soldati di pace faranno un golpe, in «Corriere della sera», 14 dicembre 1992.
[14] «Kriege führen für den Frieden», (intervista a Karl R. Popper a cura di Olaf Ihlau), in «Der Spiegel» del 23 marzo 1992 e Io, il Papa e Gorbaciov (intervista a Karl R. Popper, a cura di B. Spinelli), in «La Stampa», del 9 aprile 1992.
[15] H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (1951); tr. it., Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1989, p. 257 e p. 259 nota.
[16] J. A. Hobson, Imperialism. A Study (1902; 1938 (III ed.); tr. it., L’imperialismo, Milano, ISEDI, 1974, pp. 214 sgg.
[17] P. Johnson, Modern Times. From the Twenties to the Nineties, New York, 1991, Harper Collins, p. 152.
[18] V. I. Lenin, L’ imperalismo fase suprema del capitalismo (1917) in Id., Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1965, p. 576.
[19] P. Johnson, A History of the Jews (1987), New York, Perennial Library, 1988, pp. 572 e 574.
[20] Cfr. D. Losurdo, Autocoscienza, falsa coscienza, autocritica dell’Occidente, in «Giano. Ricerche per la pace» (Roma), n. 12, 1992, pp. 75-8.
[21] D. Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, Roma, Bibliotheca, 1993, cap. V, 3.
[22] A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique (1835-40); tr. it., La democrazia in America, in Id., Scrit­ti politici, a cura di N. Matteucci, Torino, UTET, 1968, vol. II, p. 404.
[23] Discorso all’Assemblea Costituente del 12 settembre 1848, in A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, a cura della vedova Tocqueville e di G. de Beau­mont, Paris, Michel Lé­vy Frères, 1864-7, vol. IX, pp. 544-5.
[24] Si veda in particolare N. Bobbio, Stuart Mill liberale e socialista, in «La lettera del venerdì», supplemento a «l'Unità» del 31 maggio 1991, pp. 26-7.
[25] J. S. Mill, On Liberty (1858), tr. it., Saggio sulla libertà, Milano, Il Saggiatore, 1981, p. 33.
[26] J. S. Mill, Considerations on Representative Government (1861), in Id., Utilitarianism, Liberty, Representative Government, a cura di H. B. Acton, London, Dent, 1972, p. 197.
[27] Cfr. D. Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, cit., cap. I, 6.
[28] V. I. Lenin, Gli avvenimenti nei Balcani e in Persia (1908), in Opere, Roma, Editori Riuniti, 1955 sgg., vol. XV, p. 211.
[29] V. I. Lenin, Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato (17 [1] gennaio 1918), in Opere, cit., vol. XXVI, p. 403.
[30] V. I. Lenin, L’Imperialismo, cit., pp. 652-3.
[31] V. I. Lenin, La guerra e la rivoluzione (1917; pubblicato per la prima volta nel 1929), in Id., Opere, vol. XXIV, p. 417.
[32] V. I. Lenin, Che fare? (1902), in Id., Opere scelte, cit., p. 128; cfr. anche p. 178.
[33] Ivi, pp. 147-8.
[34] Ibidem.
[35] V. I. Lenin, L’Imperialismo, cit., p. 654.
[36] Si veda in particolare F. Engels, Rede über Polen (1847), in K. Marx-F. Engels,Werke (d’ora in poi MEW), Berlin, Dietz, 1955 sgg., vol. IV, p. 417; Id., Auswärtige deutsche Politik (1848), in MEW, vol. V, p. 155. Abbiamo liberamente utilizzato la tr. it. contenuta in K. Marx-F. Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti e K. Marx-F. Engels, India Cina Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, a cura di B. Maffi, Milano, Il Saggiatore, 1960.
[37] Su ciò cfr. R. Rosdolsky, Friedrich Engels und das Problem der «geschichtslosen Völker», in «Archiv für Sozialgeschichte», IV Bd., 1964, pp. 87-282.
[38] Cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 21.
[39] K. Marx-F. Engels, Das Manifest der kommunistischen Partei (1848), in MEW, vol. IV, p. 466.
[40] K. Marx, The Future Result of British Rule In India (8 agosto 1853), in K. Marx-F. Engels, Gesamtausgabe (d’ora in poi MEGA), Berlin, in corso di pubblicazione, vol. I, 12, p. 248; cfr. anche lettera di Marx a Engels dell’8 ottobre 1858, in MEW, vol. XXIX, p. 360.
[41] K. Marx, The Future Result of British Rule In India, cit., p. 248.
[42] K. Marx, The British Rule in India (25 giugno 1853), in MEGA, vol. I, 12, p. 172-3.
[43] F. Engels, Der demokratische Panslawismus (1849), in MEW, vol. VI, pp. 273-5.
[44] K. Marx, Grundrisse der politischen Oekonomie, Berlin, Dietz, 1953, p. 30.
[45] K. Marx-F. Engels, Das Manifest der kommunistischen Partei, cit., p. 466.
[46] F. Engels, Der demokratische Panslawismus, cit., pp. 273-5.
[47] K. Marx, The Future Result of British Rule In India, cit., p. 252.
[48] K. Marx-F Engels, Revue (gennaio-febbraio 1850), in MEW, vol. VII, p. 222.
[49] K. Marx, The Indian Revolt (16 settembre 1857), in S. Avineri (a cura di), Karl Marx on Colonialism and Modernisation, New York, Doubleday, 1968, pp. 212-3.
[50] K. Marx, The British Rule in India, cit., p. 169.
[51] K. Marx, Das Kapital, in MEW, vol. XXIII, pp. 788 e 779.
[52] A. de Tocqueville, De la démocratie en Amerique, tr. it. cit., p. 42.
[53] J. S. Mill, On Liberty, tr. it. cit., p. 130.
[54] Lettera a H. Reeve del 12 aprile 1840, in A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, a cura di J. P. Mayer, Gallimard, 1951 sgg., vol. IV, 1, p. 58.
[55] K. Marx, The Future Result of British Rule In India, cit., p. 252.
[56] K. Marx, Misère de la philosophie (1847), tr. ted. in MEW, vol. IV., p. 132.
[57] K. Marx, [Another Civilisation War] (10 ottobre 1859, e [The Opium Trade] (20 settembre 1858), in S. Avineri (a cura di), Karl Marx on Colonialism and Modernisation, cit., pp. 361 e 323.
[58] K. Marx, Misère de la philosophie, tr. ted. cit., p. 132.
[59] K. Marx, The British Rule in India, cit., p. 173.
[60] K. Marx, The Future Result of British Rule In India, cit., p. 253.
[61] Ivi, p. 251.
[62] K. Marx, The Indian Revolt, cit., pp. 212-4.
[63] K. Marx, Revolution in China and in Europe (14 giugno 1853), in MEGA, vol. I, 12, pp. 147 e 149.
[64] K. Marx-F Engels, Revue (gennaio-febbraio 1850), in MEW, vol. VII, p. 222.
[65] Ibidem.
[66] K. Marx, Revolution in China and in Europe, cit., p. 149.
[67] Ivi, p. 151.
[68] Lettera a S. Meyer e A. Vogt del 9 aprile 1870, in MEW, vol. XXXII, pp. 667-9.
[69] E. Bernstein, Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1899), tr. it., Socialismo e socialdemocrazia, Bari, Laterza, 1968, p. 215 e 213.
[70] E. Bernstein, Die deutsche Sozialdemokratie und die türkischen Wirren (1896-97); tr. it., in R. Monteleone, Teorie sull’imperialismo da Kautsky a Lenin, Roma, Editori, Riuniti, 1974, p. 56.
[71] E. Bernstein, Der Sozialismus und die Kolonialfrage (1900); tr. it., in R. Monteleone, Teorie sull’imperialismo da Kautsky a Lenin, cit., p. 81.
[72] Ibidem.
[73] Ivi, pp. 78-80
[74] E. Bernstein, Die deutsche Sozialdemokratie und die türkischen Wirren, tr. it. cit., p. 67.
[75] E. Bernstein, Der Sozialismus und die Kolonialfrage; tr. it. cit., p. 80.
[76] E. Bernstein, Die deutsche Sozialdemokratie und die türkischen Wirren, tr. it. cit., p. 56.
[77] E. Bernstein, Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie, tr. it. cit., p. 218. Cfr. K. Marx, Das Kapital, cit., p. 784.
[78] M. de Vattel, Le droit des gens ou principes de la loi naturelle (1758), Libro I, Cap. XVIII, § 209 (si veda la riedizione curata da J. Brown Scott, «The Classics of International Law», Washington, 1916, vol. I, p. 195).
[79] Riportato da R. Monteleone in un un testo di commento nell’antologia da lui curata, K. Kautsy, La questione coloniale, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 86.
[80] Discorso al Congresso di Modena del 17 otobre 1911, in F. Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici 1878-1932, a cura di F. Livorsi, Milano, Feltrinelli 1979, p. 243.
[81] B. Croce, Libri italiani di filosofia , in Conversazioni critiche, serie II, (1918), Bari, Laterza, 1924 (II ed.), pp. 60-1.
[82] Stalin, Principi del leninismo (1924), in Id., Questioni del leninismo, tr. it., Roma, Edizioni Rinascita, 1952, pp. 59-60. Sul tema Stalin e la questione nazionale rinviamo a D. Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, cit., cap. VII.
[83] B. Croce, Frammenti di etica (1922), in Id.,Etica e politica (1930), Bari, Laterza, 1967 (prima ed. economica), p. 143.
[84] J. H. Franklin, From Slavery to Freedom. A History of Negro Americans (1947; 1980, II ed.); tr. ted., Negro. Die Geschichte der Schwarzen in den USA, Frankfurt a. M.-Berlin-Wien, Ullstein, 1983, pp. 397-8.
[85] P. Togliatti, In tema di libertà (1954), in Id., Opere, vol. V, a cura di L. Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1974-1984, p. 866.
[86] V. I. Lenin, Sostanze infiammabili nella politica mondiale (1908), in Opere, cit., vol. XV, pp. 178-9.
[87] V.I. Lenin, I civili europei e i barbari asiatici (1913), in Opere, cit., vol. XIX, pp. 40-1.
[88] V. I. Lenin, Il risveglio dell’ Asia (1913), in Id., Opere, cit., vol. XIX, p. 69.
[89] V. I. Lenin, L'Europa arretrata e l’ Asia avanzata (1913), in Opere, cit., vol. XIX, pp. 81-2.
[90] J. Lancaster, Ruling Family and the Economy Fuel a Simmering Saudi Discontent, in «International Herald Tribune» del 19 dicembre 1994.
[91] G. M. Trevelyan, A Shortened History of England (1942); tr. it. Storia d'Inghilterra, Milano, Garzanti, 1965, pp. 416-7.
[92] K. Marx-F. Engels, Die deustche Ideologie (1845-46), in MEW, vol. III, p. 179.
[93] V. I. Lenin, Rapporto sulla ratifica del trattato di pace (1918) e Rapporto sulla guerra e la pace (1918), in Id., Opere, cit., vol. XXVII, pp. 165-6 e 90-1.
[94] Stalin, Principi del leninismo, cit., p. 63.
[95] V. I. Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione (1916), in Id., Opere, cit., vol. XXII, p. 350.
[96] Cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, cit., pp. 76 e 271.
[97] J. Schumpeter, Zur Soziologie der Imperialismen (1919; 1953); tr. it., Sociologia dell’imperialismo, Roma-Bari, Laterza, 1974 , pp. 76 e 79-80.
[98] Ivi, p. 76, nota.
[99] I. Kant, Handschriftlicher Nachlaß, in Id., Gesammelte Schriften, Berlin, ed. dell'Accademia delle Scienze, vol. XIX, p. 605.
[100] Si veda la testimonianza riportata in J. F. Abegg, Reisetagebuch von 1798, a cura di W. e J. Abegg, in collaborazione con Z. Batscha, Frankfurt a. M, Insel, 1976, p. 186.
[101] A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, The Federalist (1787-88), a cura di B. F. Wright (1966); tr. it., Il Federalista, a cura di M. D’Addio e G. Negri, Bologna, Il Mulino, p. 75 (n. 7).
[102] Messaggio d’addio del 19 settembre 1796 e lettera al marchese di Lafayette (Philadelphia, 28 luglio 1791), in G. Washington, A Collection, a cura di W. B. Allen, Indianapolis, Liberty Classics, 1988, pp. 525 e 555.
[103] K. Marx, Die Kriegsaussichten in Preußen (1859), in MEW, vol. XIII, pp. 282-3.
[104] B. Croce, L'Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1950, p. 75 e p. 64.
[105] D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 347-8.
[106] F. J. Harbutt, The Iron Curtain. Churchill, America and the Origins of the Cold War, New York-Oxford, Oxford University Press, 1986, p. 28.
[107] R. H. Gabriel, The Course of American Democratic Thought, New York-Westport-London, III ed., 1986, pp. 394-9.
[108] S. E. Ambrose, Eisenhower and the Germans, in Günter Bischof-Stephen E. Ambrose (a cura di), Eisenower and the German POWs. Facts against Falsehood, Baton Rouge and London, Louisiana State University Press, 1992, p. 31.
[109] G. Bischof-S. E. Ambrose, Introduction a Eisenower and the German POWs. , cit., p. 25.
[110] D. D. Eisenhower, Crusade in Europe (1948), New York, Doubleday, p. 470.
[111] Ivi, p. 287.
[112] S. E. Ambrose, Eisenhower and the Germans, cit., p. 33; corsivo mio.
[113] J. Bacque, Other Losses (1989), tr. it., Gli altri Lager. I prigionieri tedeschi nei campi aleati in Europa dopo la 2a guerra mondiale, Milano, Mursia, 1993, pp. 35-6.
[114] J. Bacque, Other Losses , tr. it. cit., p. 21.
[115] G. Bischof-S. E. Ambrose, Introduction, cit., p. 12.
[116] S. E. Ambrose, Eisenhower and the Germans, cit., pp. 33-4.
[117] Così nel messaggio radiofonico del 23 dicemebre 1940, riportato in W. Churchill, Great Destiny, antologia a cura di F. W. Heath (1962), New York, Putnam’ Sons, 1965, pp. 687-9.
[118] G. Bischof-S. E. Ambrose, Introduction, cit., p. 17.
[119] P. Fussel, Wartime (1989); tr. it., Tempo di guerra, Milano, Mondadori, 1991, pp. 177-8 e 153.
[120]A. Hitler, Mein Kampf (1925/7), München, Zentralverlag der NSDAP, 1939, p. 154.
[121] Stalin, Befehl des Volkskommissars für Verteidigung (23 febbraio 1942), in Id., Über den Grossen Vaterländischen Krieg der Sovjetunion, Frankfurt a. M., Dokumente der Kommunistichen Weltbewegung, 1972, p. 50. Del tutto indimostrata è la tesi secondo cui, «nel corso della seconda guerra mondiale», Stalin averebbe dichiarato «l’intero popolo tedesco nemico del socialismo e dei popoli sovietici»: cfr. R. Rosdolsky, Friedrich Engels und das Problem der «geschichtslosen Völker», cit., p. 149, nota 11.
[122] Stalin, Der 24. Jahrestag der Grossen Sozialistischen Oktoberrevolution (6 novemebre 1941), in Id., Über den grossen Vaterländischen Krieg der Sovjetunion, cit., pp. 28-9; cfr. anche Id., Der 26. Jahrestag der Grossen Sozialistischen Oktoberrevolution (6 novemebre 1943), in Id., Über den grossen Vaterländischen Krieg der Sovjetunion, cit., p. 137.
[123] R. C. Tucker, Stalin in Power. The Revolution from Above, 1928-1941, New York-London, Norton, 1990, p. 258.
[124] J. Bacque, Other Losses, tr. it. cit., p. 21.
[125] B. Croce, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa (1943), in B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), a cura di A. Carella, vol. I, Napoli, Bibliopolis, 1993 (vol. VII, 1 dell’Edizione Nazionale), pp. 157-8.
[126] Cfr. R. D. Breitman, The Architect of Genocide (1991); tr. it., Himmler. Il burocrate dello sterminio, Milano, Mondadori, 1993, pp. 184 e 199-200.
[127] Cfr. S. Canedy, America's Nazis. A Democratic Dilemma, Menlo Park, Markgraf, 1990, pp. 10-1.
[128] Cfr. H. Thomas, Armed Truce. The Beginnings of the Cold War 1945-46 (1986), London, Sceptre, 1988, pp. 891 e 585.
[129] Discorso del 27 aprile 1941, in W. Churchill, His Complete Speeches 1897-1963, vol. VI, New York- London, Chelsea House, 1974, p. 6384; su questo brano ha richiamato l’attenzione E. Nolte (Der europäische Bürgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bolschewismus, Frankfurt a. M. Berlin, Ullstein 1987, p. 503), il quale, però, traduce tendenziosamente others con die Anderen, come se si trattasse di tutti gli altri. Dal contesto risulta chiaramente, peraltro, che Churchill pensa ad uno sfoltimento massiccio di quella che lo statista anglosassone tende a bollare come la «razza» degli «unni».
[130] Cfr. F. J. P. Veale, Advance to Barbarism. The Development of Total Warfare (1948), Newport Beach, USA, Institute for Historical Review, 1979, pp.. 18-9; D. Irving, The Destruction of Dresda (1963); tr. it., Apocalisse a Dresda. I bombardamenti del febbraio 1945, Milano, Mondadori, p. 44 sgg.
[131] A. P. Schmid, Churchills privater Krieg. Intervention und Konterrevolution im russischen Bürgerkrieg, November 1918-März 1920, Zürich, Atlantis, 1974, p. 322.
[132] J. Bacque, Other Losses, tr. it. cit., p. 27.
[133] Cfr. H. Thomas, Armed Truce, cit., p. 585. Ancora oltre si spinge Paul V. McNutt, presidente della «War Manpower Commission», che esige «lo sterminio dei giapponesi in toto». Del resto, già prima di Pearl Harbor, il piano elaborato dal generale George C. Marshall prevede «attacchi incendiari generalizzati al fine di dar fuoco alle strutture di legno e di cartone delle città densamente popolate». Come è stato sottolineato, gli «appelli allo sterminio della razza giapponese», provenienti dai «livelli più alti dell’amministrazione» USA, sono tanto più comprensibili per il fatto che, da una parte e dall’altra il conflitto viene sentito e raffigurato come una guerra razziale. Anche la più autorevole stampa americana s’impegna a de-umanizzare il nemico, dipingendolo come un insieme di scimmie sanguinarie: su tutto ciò cfr. R. Harwood, Americans and Japanese Haunted by Horrors of the Pacific War, in «International Herald tribune» del 1 agosto 1995.
[134] Cfr. G. Friedman & M. Lebard, The Coming War with Japan, New York, St. Martin Press, 1991, p. 95.
[135] A notarlo polemicamente è il segretario della guerra americano, Stimson: cfr. H. L. Stimson and Mc George Bundy, On Active Service in Peace and War, New York, Octagon Books, 1971, pp. 571-9.
[136] Stalin, Der 27. Jahrestag der Grossen Sozialistischen Oktoberrevolution (6 novemebre 1944), in Id., Über den grossen Vaterländischen Krieg der Sovjetunion, cit., p. 192.
[137] Cfr. I. Deutscher, Stalin. A Political Biography (1965); tr. it., Stalin. Una biografia politica, Milano, Longanesi, 1969, p. 755; G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, Milano, Mondadori, 1979, vol. II, pp. 273-4.
[138]Cfr. M. Schmidt-D. Stein, Im Gespräch mit Ernst Nolte, Potsdam, Junge Freiheit, 1993, p. 29.
[139] J. Bacque, Other Losses, tr. it. cit., p. 20.
[140] F.J. Harbutt, The Iron Curtain, cit., p. 31.
[141] Cfr. F. J. P. Veale, Advance to Barbarism, cit., pp. 216-220; James Bacque, Other Losses, tr. it. cit., p. 19.
[142] J. Bacque, Other Losses, tr. it. cit., p. 35.
[143] Ivi, p. 27.
[144] A. M. Schlesinger jr., The Disuniting of America. Reflections on a Multicultural Society, New York-London, Norton, 1992, p. 62.
[145] Ivi, p. 63.
[146] Ivi, p. 82.
[147] Ivi, pp. 67 e 64.
[148] E’ in base a tali stereotipi che, per secoli, le donne sono state escluse dal godimento dei diritti politici. Risulta ben poco persuasiva, sul piano storico e sociale, l’affermazione di Virginia Woolf secondo cui, «in tutto il corso della storia, si contano sulle dita di una mano gli esseri umani uccisi dal fucile di una donna» (Three Guineas, 1938, tr. it. con intr. di L. Muraro, Tre ghinee, Milano, 1979, p. 25). Dà da pensare il fatto che tale affermazione cade alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, che avrebbe visto le donne impegnate attivamente nei movimenti armati di resistenza contro il nazi-fascismo. Ma c’è una considerazione di carattere ben più generale: se, fino a qualche tempo fa, la divisione del lavoro ha riservato ai maschi le funzioni militari, non bisogna dimenticare che, già nel passato, soprattutto in presenza di conflitti di grosse proporzioni, la mobilitazione totale ha coinvolto anche le donne, le quali, non poche volte, trascinate anche loro dalla generale eccitazione bellicistica e sciovinistica, si sono dichiarate fiere di offrire i propri figli alla patria o hanno stimolato mariti, fidanzati o figli ad arruolarsi come volontari (cfr. G. Best, The Militarization of European Society, 1870-1914, in J. R. Gilles (a cura di), The Militarization of the Western World, New Brunswick and London, Rutgers University Press, 1989, p. 20) Per quanto riguarda in particolare la storia della Gran Breagna, non sono mancate le donne distintesi nella celebrazione dell’espansione e delle avventure coloniali e assurte al ruolo di «Crociate dell’Impero», né sono mancate le femministe che hanno rivendicato l’emancipazione in nome del ruolo svolto per l’appunto nella costruzione dell’Impero (cfr. H. Callaway- D. O. Helly, Crusader for Empire. Flora Shaw/Lady Lugard e A. M. Burton, The White Woman’s Burden. British Feminists and «The Indian Woman», 1865-1915, in N. Chaudhuri/ M. Strobel, Western Women and Imperialism. Complicity and Resistance, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 1992, pp. 79-97 e 137-157). D’altro canto, come dimenticare che due tra i più importanti protagonisti nella costruzione dell’Impero inglese sono la regina Elisabetta e la regina Vittoria? Per quanto riguarda le discriminazioni razziali, si tenga presente che persino un autore critico dell’istituto della schiavitù come Jeffersoner mette in connessione la presunta incapacità dei neri ad innalzarsi a forme sviluppate di civiltà col fatto che «in generale, la loro esistenza sembra guidata più dall’istinto che dalla riflessione»: se, in quanto a «ragione» sono «molto inferiori», «nella musica i neri sono generalmente più dotati dei bianchi ed hanno orecchie sensibili alla melodia e al ritmo», anche se risultano ugualmente incapace di innalzarsi all’autentica «poesia», che presuppone pur sempre il superamento dell’immediatezza emotiva: cfr. Notes on Virginia (1787); tr. it. in M. Sylvers, Il pensiero politico e sociale di Thomas Jefferson, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1993, p. 141. L’evidenziamento dell’insostenibilità del bilancio storico e filosofico tracciato dai movimenti di contro-razzismo e contro-sessismo non esclude il riconoscimento della loro parziale legittimità politica e neppure il riconoscimento del peculiare impulso che dalle razze o dal genere oppresso storicamente è scaturito per la contestazione di un ordinamento fondato sulla sopraffazione e la violenza.
[149] V. I. Lenin, Democrazia e populismo in Cina (1912), in Opere, cit., vol. XVIII, p. 154.
[150] V. I Lenin, Una preziosa confessione (1901), in Opere, cit., vol. V, p. 69.
[151] V. I. Lenin, Democrazia e populismo in Cina, cit., p. 152 e 155.
[152] V. I. Lenin, Il risveglio dell’ Asia, cit., vol. XIX, p. 69.
[153] V.I. Lenin, I civili europei e i barbari asiatici, cit., vol. XIX, pp. 40-1.
[154] L. Dumont, Homo aequalis, II. L’idéologie allemande, Paris, Gallimard, 1991, p. 27.
[155] V. I. Lenin, Meglio meno, ma meglio (1923), in Opere, cit., vol. XXXIII, pp. 445-6 e p. 450.
[156] Cfr. Sur la guerre (2 gennaio 1792), in M. Robespierre, Textes choisis, a cura di J. Poperen, Paris, Edition Sociales, 1958, pp. 130 e 140.
[157] V. I. Lenin, Stato e rivoluzione (1917), in Opere scelte, cit., pp. 918-9; Id., L’Imperialismo, cit., p. 653.
[158] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Milano, Feltrinelli, 1969 (II ed.), p. 89.
[159] V. I. Lenin, L’imperialismo, cit., p. 652.
[160] S. P. Huntington, The Clash of Civilisations?, in «Foreign Affairs», estate 1993, p. 40.
[161] Ivi, pp. 26 e 39.
[162] Ivi, p. 40.
[163] Ivi, p. 49.
[164] L’Occidente siamo noi (editoriale non firmato), in «Limes», n. 3; 1994, pp. 10-1
[165] A. Benantar, Gli Arabi e l’Ovest: mettete in soffitta le crociate, cit., p. 23.
[166] S. P. Huntington, The Clash of Civilisations?, cit., p. 35.
[167] Su ciò cfr. A. Benantar, Gli Arabi e l’Ovest: mettete in soffitta le crociate, cit., p. 22.
[168] P. Togliatti, L’Europa e l’Asia (1954), in Id., Opere , vol. V, cit., pp. 849-850.
[169] Su ciò cfr. D. Losurdo, Il Nuovo Ordine Internazionale nella storia delle ideologie della guerra, in «Giano. Ricerche per la pace» (Roma), n. 14-5, 1993, pp. 112-3.
[170] S. P. Huntington, The Clash of Civilisations?, cit., pp. 35-6.
[171] Ivi, pp. 23 e 43.
[172] Ivi, p. 39.
[173] Ivi, p. 34.
[174] Ibidem.
[175] Su ciò cfr. D. Losurdo, Il Nuovo Ordine Internazionale nella storia delle ideologie della guerra, cit., pp. 128-132.
[176] G. Clark, Japan’s Anti-War Consitution Was and Remains Wise, in «International Herald Tribune» del 3 novembre 1994.